Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio. Oggi parliamo di Zorro, di scacchi e dell’importanza di riflettere tra sé e sé.
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L’aiutante di Zorro
Se ci penso bene, il personaggio di Zorro ha abitato la mia infanzia e quella dei miei coetanei in una maniera piuttosto bizzarra e unica. Mi spiego meglio: tutti noi sapevamo chi fosse Zorro; tutti noi riconoscevamo quella benda e quel mantello neri quando venivano indossati dai nostri amici alle feste di Carnevale. Anzi, travestirsi almeno una volta da Zorro era, per così dire, una tappa obbligatoria nella nostra agoghé carnevalesca.
Eppure non conosco nessuno, tra coloro che hanno condiviso con me tale rito di iniziazione, a cui Zorro piacesse davvero. Non che lo detestassimo, si badi: nulla di così emotivo! Zorro ci era semplicemente indifferente. E non riesco a farmi venire in mente nessun’altra figura che fosse al contempo così presente e così estranea al nostro immaginario infantile.
Il fatto è che Zorro non era un nostro eroe. Era l’eroe di una generazione (tra)passata; l’eroe dei nostri nonni, i quali, con maldestra benevolenza, calavano su di noi quella maschera, inconsapevoli che l’avremmo accettata con la stessa freddezza con cui accettavamo i regali kitsch delle anziane prozie alle festicciole di compleanno.
Così, nonostante la serie TV di Zorro venisse trasmessa frequentemente negli schermi di allora, proprio per la ragione che ho appena descritto non ricordo praticamente nulla della storia di Don Diego de la Vega, se non che questo era appunto il vero nome dell’uomo che si celava dietro ai panni dello spadaccino vestito di nero.
C’è però un particolare che è rimasto impresso indelebilmente nella mia memoria; che è sopravvissuto all’accurato processo di rimozione operato dal mio inconscio nei decenni successivi. E questo particolare è il fatto che Zorro aveva un aiutante, il quale traeva un inspiegabile sollazzo dal fatto di giocare a scacchi da solo.
Probabilmente uno scacchista avrebbe riso della mia derisione, ma nella mia mente da bambino ritenevo una stupida idiozia il fatto di giocare a scacchi da soli. Veniva meno, a mio modesto avviso, il senso stesso del giocare, ovvero il desiderio della vittoria, della distruzione dell’avversario, dell’affermazione animalesca della propria volontà di potenza! Giocando da soli si avrebbe sempre vinto, ergo si avrebbe sempre perso. Non potevo pensare a qualcosa di più triste. Se avessi conosciuto il concetto schopenhaueriano di noia l’avrei senz’altro associato a quell’immagine: una partita a scacchi priva di avversari, di vittorie o di sconfitte.
A distanza di anni, però, mi rendo conto che quell’unico particolare sopravvissuto alla rimozione, nascondeva (probabilmente senza alcuna intenzionalità) un suggerimento importante.
Giocare a scacchi da soli
A distanza di anni, dicevo, “il curioso caso di Zorro” mi ha insegnato due cose. La prima è che, a Carnevale, è meglio non vestire i figli da eroi della propria infanzia. La seconda è che giocare a scacchi da soli è il più grande esercizio dialogico che potremmo mai fare. Salvo che al posto di torri, cavalli e alfieri, dovremmo disporre sulla scacchiera idee, ragionamenti e argomentazioni.
Come si gioca a scacchi con le idee? È facile: si enuncia una tesi, una propria convinzione e si cerca di argomentarla. Si passa poi dall’altra parte del tavolo e, mettendosi nei panni dell’interlocutore, si fa la mossa contraria: si cerca di trovare contro-argomentazioni valide, si smascherano gli errori formali o contenutistici nella propria esposizione di partenza. Poi di nuovo si ritorna alla posizione iniziale e si prova a rispondere a quelle contro-argomentazioni… e via dicendo.
Questo gioco sarebbe utilissimo per almeno due ragioni. Una (meno importante) è che costituisce un allenamento al dibattito vero e proprio, che ci aiuta a prevedere in anticipo quali potrebbero essere le contro-mosse dei nostri avversari e ad elaborare risposte convincenti. Un’altra, fondamentale, è che ci insegna a distaccarci dai nostri stessi pensieri, ad analizzarli da una prospettiva nuova e a mettere in dubbio (forse per la prima volta) ciò che fino a quel momento avevamo sempre ritenuto vero, giusto, scontato.
È una lezione di critica socratica applicata a noi stessi: prima di smontare i discorsi altrui, infatti, dovremmo imparare a smontare i nostri. Prima di dire agli altri che non sanno nulla, dovremmo essere i primi a sapere di non sapere.
Se diventeremo bravi a metterci nei panni dell’altro (sta indubbiamente in questo la parte più difficile del gioco), a trovare contro-argomenti seri e ben costruiti, ci costringeremo a ragionare seriamente sulle nostre convinzioni; a chiederci quando e per quale ragione abbiamo sviluppato una certa idea.
Nella prospettiva del primo giocatore (cioè della nostra convinzione iniziale) i risultati possibili sono due, entrambi molto positivi. Potremmo vincere, e quindi rafforzare la nostra tesi e diventarne più consapevoli, oppure (meglio ancora) potremmo perdere, e renderci conto che qualcosa che fino a quel momento avevamo dato per scontato non era poi così scontato, che la nostra visione del mondo andava ricalibrata, rivista, ripensata.
A differenza dell’aiutante di Zorro, vinceremo sempre, ma non perderemo mai, perché nel dibattito l’unico vero perdente è proprio colui che non mette mai in dubbio il proprio punto di partenza. Potrebbe essere una lunga partita; potrebbe durare addirittura tutta la vita. Ma rifiutarsi di giocare significa rifiutarsi pensare; rifiutare di servirsi della propria intelligenza!
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Sono certo che in molti non conoscano Paolo Maurensig, scacchista e romanziere triestino scomparso da pochi anni. Il suo libro più celebre è senz’altro La variante di Lüneburg, che ricordo di aver divorato in una sola giornata.
Il romanzo, che prende la forma di un racconto giallo, si articola in una lunga partita di scacchi, che svela, mossa dopo mossa, le vite intricate dei due misteriosi giocatori: un ufficiale nazista e un ebreo, nemici in tutto, ma uniti da quel talento scacchistico che ne intreccerà per sempre le vite.
Ottimo pezzo! Non è così semplice essere critici delle proprie idee. A volte ci si sente come se si fosse ciechi davanti a uno specchio e chiedersi “cos è che non riesco a vedere?”