Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio. Oggi però parliamo di illuminismo e dell’importanza di pensare con la nostra testa.
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Rivoluzione!
Nel 1784 l’Illuminismo è ormai un movimento culturale vivacissimo, una febbre che infiamma le menti di intellettuali, artisti e rivoluzionari di tutto il mondo. Voltaire, Rousseau, Diderot e Montesquieu sono ormai diventati delle vere e proprie star del loro tempo: i Fab Four dei circoli intellettuali, i cui libri vengono letti e commentati in ogni salotto borghese, in ogni giornale culturale e certamente (con un certo gusto del proibito) anche da qualche nobildonna stanca della monotona vita di corte e dell’alitosi reazionaria del proprio marito imbellettato.
D’altra parte dentro alle corti europee non c’è da star tranquilli: sull’altra sponda dell’oceano le ex colonie inglesi si sono già ribellate alla corona e hanno dichiarato l’indipendenza, ponendo alla base della loro Repubblica i princìpi illuministi della democrazia, della divisione dei poteri, della libertà e dell’uguaglianza.
Di lì a pochi anni, come ben sappiamo, anche la Francia inizierà la sua Rivoluzione, ponendo fine con un colpo di ghigliottina al potere assoluto dei Borbone e inaugurando una stagione completamente inedita per la storia politica europea.
Non in tutto il mondo, però, il fermento illuminista conduce a ribellioni armate contro il potere costituito. La Prussia, ad esempio, è un paese piuttosto stabile, retto in quegli anni da Federico II di Hohenzollern, detto il Grande.
“Il vecchio Fritz”, come lo chiamavano affettuosamente i suoi commilitoni, era certamente un despota, che mantenne il potere saldamente ancorato alle sue mani e che si arroccò tra gli scudi impenetrabili di una temutissima potenza militare. Tuttavia, più che un tiranno fu un sovrano illuminato: una mente che appoggiava apertamente lo spirito dell’illuminismo; che parlava il francese; che manteneva una fitta corrispondenza con Voltaire e con altri philosophes; che scriveva trattati di teoria politica e che nel tempo libero suonava il flauto e componeva musica da camera.
L’inusuale apertura mentale di Federico fece sì che i suoi sudditi, benché vivessero a pieno titolo in un assolutismo, non sviluppassero mai una dichiarata avversità nei confronti del proprio re. La Prussia rimase in quegli anni un paese piuttosto libero dal punto di vista culturale; un luogo in cui le diverse dispute intellettuali potevano occupare con relativa tranquillità le colonne stampate dei giornali pubblici.
Questo matrimonio non s’ha da fare
Ebbene, è proprio in uno di questi giornali (più precisamente nella Berlinische Monatsschrift) che nel 1784 uscì un articolo come molti altri, che propugnava una di quelle idee estremiste che non dovevano essere così rare negli ambienti illuministi.
I preti e i membri del clero - dichiara l’autore - non avrebbero più dovuto rivestire alcun ruolo nella celebrazione dei matrimoni. Anzi, lo stesso matrimonio appariva come un rito in aperto contrasto con lo spirito dell’Illuminismo.
Eresia contro il pilastro fondamentale della società o liberazione da un vincolo religioso anacronistico? Al momento la risposta a questa domanda non ci interessa.
Non possiamo sapere quanto seria fosse l’invettiva, di cui tra l’altro oggigiorno non sapremmo un bel nulla, se non fosse per l’effetto domino che essa scatenò.
Non proveremmo alcuno stupore se scoprissimo che, come spesso accade anche ai giorni nostri, l’autore puntava semplicemente a far parlare di sé; a dar scandalo; a discutere per il puro piacere di farsi un nome.
Per quanto riguarda il farsi un nome, a due secoli e mezzo di distanza possiamo tranquillamente affermare che l’autore non abbia ottenuto il successo sperato. Quanto invece al dar scandalo… l’esito a suo tempo fu senz’altro migliore.
L’articolo ricevette infatti la risposta indignata di un altro intellettuale illuminista abbastanza noto nell’area berlinese: tale Johann Friedrich Zöllner.
Zöllner, diciamocelo, non poteva nemmeno aspirare a essere qualcosa di simile ai Fab Four; la sua notorietà non si estendeva molto oltre i confini della Prussia; non fece la storia della filosofia, né del giornalismo e non ebbe idee particolarmente audaci. Oggi di lui rimane poco più che un nome, appuntato tra le pagine di qualche polveroso tomo sulla storia del pensiero tedesco.
Eppure, se quel mattino del 1784 il buon Johann Friedrich Zöllner non avesse sfogliato le pagine della Berlinische Monatsschrift; se non avesse provato una noiosa irritazione di fronte a quella missiva antimatrimoniale; se per scrupolo, per mancanza di tempo o per noia, avesse rinunciato a rispondere per le rime al suo autore, oggi non avremmo quello che è probabilmente il testo più incisivo e importante dell’intero illuminismo tedesco. Ovviamente non parlo del testo di Zöllner: al nostro racconto manca ancora un importante tassello.
A Zöllner, che probabilmente non aveva sentimenti anticlericali, non stava bene che l’illuminismo venisse usato per sovvertire l’ordine religioso e così scrisse la sua risposta, pubblicata tra le colonne dello stesso giornale, in cui osservava che i principi della moralità erano abbastanza in crisi e che non era dunque un bene “confondere le menti e i cuori degli uomini” in nome dell’Illuminismo.
Fino a qui, nulla di così eclatante. Ma è a questo punto che Zöllner aggiunge una piccola nota: una domanda apparentemente scontata, ma che sarebbe stata usata come trampolino per uno dei più riusciti tuffi intellettuali della modernità.
Che cos’è l’illuminismo? - si domanda l’autore. - Tale questione, che è importante quasi quanto la domanda "Che cos’è la verità?”, dovrebbe pur ricevere una risposta prima che si cominci a fare dell’illuminismo! Eppure non ho ancora trovato che abbia avuto risposta.
Tutti vanno riempiendosi la bocca di questo illuminismo, dice il Nostro. Ma siamo così sicuri di sapere di cosa parliamo, quando parliamo di illuminismo? O rischiamo di assumerlo come base ideologica per portare avanti idee immorali e insostenibili?
Un lettore speciale
Se tutto si fosse concluso qui, ancora una volta, di questa storia non avremmo mai più sentito parlare. Ma ecco l’ultimo tassello del nostro domino: in quegli anni, tra i tanti lettori della Berlinische Monatsschrift c’era anche un illustre professore dell’università di Königsberg; un uomo piuttosto riservato, che amava la mondanità e gli abiti ben confezionati, ma che manteneva altresì una condotta di vita stoica e irreprensibile; un figlio del proprio secolo che, non avendo mai nascosto le sue simpatie per le nuove teorie politiche, rimase profondamente colpito dalla domanda di Zöllner. Il suo nome era Immanuel Kant.
Al tempo Kant era certamente un professore stimato, ma non era ancora il gigante filosofico che oggi tutti noi conosciamo. Soltanto tre anni prima aveva dato alle stampe la sua opera più importante, che gli era costata undici anni di lavoro e un colossale sforzo intellettuale. Ma la Critica della Ragion Pura non era stata compresa dai suoi contemporanei, che faticavano a destreggiarsi tra la terminologia innovativa e i concetti di quel volume rivoluzionario.
Kant dunque non perdeva occasione per cercare di divulgare e di chiarire le sue idee a un pubblico più vasto e l’articolo di Zöllner dovette sembrargli un ottimo appiglio a cui aggrapparsi.
Così prese carta e penna e il 30 settembre 1784 pubblicò, di nuovo sulla Berlinische Monatsschrift, un lungo articolo dal titolo inequivocabile: Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?
Sapere aude!
Il professore di Königsberg non fu l’unico a tentare di dare una risposta a quella domanda, ma il suo esito fu senz’altro più acuto di tutti gli altri da un punto di vista filosofico, tanto da far dimenticare tutta la vicenda pro o anti-matrimoniale che l’aveva preceduto.
La sua idea è limpida sin dalle prime righe:
L’illuminismo - inizia Kant - è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo.
L’illuminismo consiste nel diventare maggiorenni dal punto di vista intellettuale, ovvero: imparare a pensare con la propria testa anziché con quella degli altri.
La risposta kantiana potrebbe lasciare scontente molte persone: egli infatti non ci dice quali siano i contenuti dell’illuminismo; non ci consegna un Credo illuminato da recitare a memoria per essere considerati buoni discepoli dell’età dei lumi. No, Kant ci parla piuttosto di un modo di ragionare.
La lezione è chiara: l’illuminismo non è e non deve diventare un’ideologia, ovvero un insieme di credenze a cui aderire acriticamente. Sbaglierebbe chiunque tentasse di tracciare un decalogo di precetti e formule del perfetto illuminista; un ritratto antropologico che ci dica che cosa l’illuminista pensa e che cosa non pensa.
Il motto dell’illuminismo non riguarda infatti alcun pensiero specifico, bensì il metodo con cui si può arrivare a sviluppare un pensiero proprio. Essere illuministi significa servirsi della propria intelligenza, coltivare gli strumenti della propria razionalità per liberarsi dal peso di tutti quei tutori intellettuali che avevano affollato il mondo pre-moderno. Essere illuministi significa agire non in base a quelle massime che ci sono dettate dai testi sacri, dalle autorità di corte, dalla tradizione, da padri naturali o culturali che pretendono di pensare per noi; bensì in base a quelle massime dettateci dalla nostra ragione, che possano essere assunte a norme universali valide per tutti gli uomini.
In questo modo arriveremo probabilmente a darci nuove regole, nuovi ideali, nuovi valori. Ma non dovremmo commettere l’errore di confondere gli ideali dell’illuminismo con lo stesso illuminismo, che rimane nulla di più che un modus operandi.
Di questi tempi, ahimé, va fatta un’importante specifica: pensare con la propria testa non significa pensare ciò che si vuole. Il pensiero critico, cioè, non dev’essere confuso con la critica ad ogni pensiero! L’illuminismo non è l’abbandonarsi a un irrazionale sospetto che il pensiero dominante sia sempre e comunque sbagliato.
Il pensiero critico non è il pensiero di chi critica, ma la capacità di pensare in maniera corretta, servendosi degli strumenti critici della ragione. Significa conoscere la logica e l’argomentazione; saper interpretare correttamente i dati; imparare a selezionare le fonti; dedicarsi con fatica e rigore allo studio. In questo modo si arriverà talvolta a criticare, talvolta ad assentire. Se invece confondiamo il criticismo con uno scetticismo autogiustificatorio, rischiamo di fare la figura dei fessi, pensandoci gli unici furbi.
Chiarito ciò, procediamo con un ultimo spunto.
Che cos’è la verità
Nel proprio articolo, se ben ricordate, Zöllner non aveva solamente posto la domanda su che cosa sia l’illuminismo, ma aveva anche affermato che tale quesito «è importante quasi quanto la domanda “Che cos’è la verità?”».
Ora, la domanda su cosa sia la verità è forse la domanda centrale dell’intera filosofia; la domanda delle domande; lo scopo ultimo del nostro filosofare.
Ebbene, il breve scritto kantiano non è soltanto la risposta a un interrogativo storico-culturale, ma un prezioso libretto delle istruzioni per chiunque di noi, nella sua vita, voglia provare a filosofare - vale a dire per chiunque di noi, nella sua vita, voglia provare a rispondere alla domanda “che cos’è la verità?”.
Fare filosofia significa uscire dalla caverna della nostra minorità, nella quale noi stessi ci siamo rinchiusi. Tale minorità è l’incapacità di servirci della nostra intelligenza senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo, dunque, è il motto della filosofia.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche, se già non l’hai fatto, di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscite!
Il breve saggio di Kant è anche un ottimo modo per approcciarsi a una lettura filosofica. La sua brevità, la sua chiarezza e la sua incisività lo rendono infatti un ottimo punto di partenza per chi volesse iniziare ad addentrarsi nella filosofia kantiana.
L’edizione che consiglio contiene anche altri due saggi, di Foucault e Habermas, che possono aiutare ad ampliare ancora di più l’orizzonte di questa dissertazione.
Se vuoi aiutare il mio progetto di divulgazione, puoi acquistare il testo anche dalla mia vetrina Amazon: il prezzo per te rimarrà lo stesso, ma un piccolo contributo verrà riconosciuto anche a me. Grazie e buona lettura!
Belle riflessioni! Tra l’altro visto che hai spesso anche parlato di postmodernismo, ti consiglio di provare a dare un’occhiata a quello che ormai viene chiamato metamodernismo (un tentativo di definire una sorta di post-postmodernismo). Leggendo le tue parole mi è sembrato di poter definire questa nuova corrente di pensiero un vero illuminismo attuale del XXI secolo, un illuminismo che passa attraverso la decostruzione postmoderna e prova però a concludere positivamente quel progetto della modernità di cui parlava Habermas. Insomma, un “sapere aude” che non ignora e cerca di rispondere costruttivamente a tutte le critiche alla ragione che sono state fatte negli scorsi decenni. Secondo me potrebbe interessarti e credo che avresti cose interessanti da dire! Per il resto continua così e grazie :)
Grazie della sintesi magistrale.