Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio. Oggi però parliamo di dicotomie e del modo in cui spesso classifichiamo il mondo.
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Vivere di schieramenti
Le più grandi avventure della letteratura si fondano tutte (o quasi tutte) su coppie contrapposte di genìe e di schieramenti: Achei e Troiani; Montecchi e Capuleti; Lillipuziani e Blefuscudiani e molti altri ancora, fino all’archetipo che costituisce la base ontologica di ogni nuova dicotomia, ovvero la distinzione tra buoni e cattivi.
La storia, d’altra parte, non è da meno, con le sue schiere “l’un contra l’altra armate” di populares e optimates; di guelfi e ghibellini; di cattolici e protestanti; di borghesi e proletari. Se sia la letteratura a prendere la forma della storia o piuttosto la storia ad adeguarsi a un nostro bisogno narrativo, non possiamo saperlo con certezza. Il fatto, però, è che la nostra vita, reale e immaginaria, è puntellata di battaglie, di opposizioni, di conflitti.
Non solo la mente sembra sentirsi a suo agio tra le divisioni (che rendono semplici i giudizi e nutrono il nostro bisogno di appartenenza), ma crea attivamente sempre nuove separazioni, con le quali ordinare il mondo e perpetuare i mali della storia.
Spesse volte tali separazioni hanno una base reale, concreta, ineludibile. Ma talora subiamo queste divisioni più passivamente: le accettiamo come un qualcosa che è sempre stato - che fonda, appunto, il nostro stare al mondo, e non esercitiamo su di loro alcun dubbio e alcuno spirito critico.
Se la filosofia consiste nel mettere in dubbio ciò che in apparenza sembra a tutti scontato, diventa allora un buon esercizio filosofico chiederci se gli aut-aut di fronte a cui ci troviamo siano un qualcosa di fondato, o se non siano piuttosto dicotomie fallaci - un tentativo di ridurre un quadro vivacemente colorato a una fredda bicromia.
Proviamo allora a intraprendere insieme questo esercizio.
Tra le tante opposizioni di cui si ciba la nostra quotidianità, ve n’è specialmente una che, personalmente, non mi ha mai convinto del tutto. Ve la sottopongo con prudente scetticismo, nella speranza che sappia destare anche in voi qualche interessante riflessione e qualche fertile dubbio.
L’opposizione di cui parlo è quella che vede contrapporsi tra loro “conservatori” e “progressisti”. Il fatto che un politico, un intellettuale, un cittadino debba essere o progressista o conservatore è un’idea tanto comune da sembrare un’ovvietà. Tutti sanno che la destra è conservatrice e che la sinistra è progressista; che Dio, Patria e Famiglia sono ideali conservatori e che Libertà, Uguaglianza e Fraternità sono stendardi progressisti.
Ma siamo certi che “conservare” e “progredire” siano termini oppositivi?
Andare avanti o tornare indietro?
Partiamo dal verbo “progredire”. Se ci allontaniamo momentaneamente dal lessico politico e guardiamo da una prospettiva neutrale ai concetti e alla terminologia, ci accorgiamo subito dell’inghippo: nessuno direbbe mai che il contrario di “progredire” è “conservare”. Nemmeno il dizionario Treccani.
L’opposto di “progredire” è invece “regredire”, “arretrare” o, al massimo, “rimanere fermi”.
Gli avversari del progressismo, dunque, non sono i “conservatori”, ma i fautori del regresso: coloro che vorrebbero ritornare al passato, coloro per cui lo ieri sarà sempre più dorato del domani, i nostalgici. Sono coloro che, più che i valori, la storia e le tradizioni, hanno a cuore lo status quo e la sua infinita perpetuazione.
Non voglio sembrare ingenuo: non v’è dubbio che esista una frangia degenerata di conservatori che si pongono in una posizione, diciamo così, “regressista”. Ma non sono certo che questa frangia rappresenti la vera natura del conservatorismo, né che possa essere strumentalizzata per porre l’intero conservatorismo in antitesi al progressismo.
Prova ne sia che sono proprio alcuni movimenti conservatori a farsi paladini della necessità di voltare pagina, di cambiare passo, di guardare in avanti.
Questo sguardo in avanti, certo, mantiene la continuità con la memoria di ciò che siamo e di ciò che siamo stati, ma non sempre desidera usare questa memoria per restaurare il passato.
In un libro che ho letto di recente, proprio Marcello Veneziani (che, se volessimo rispettare la dicotomia, verrebbe sicuramente etichettato come conservatore) afferma che c’è un problema serio quando
la tradizione viene ridotta a un’epoca del passato, un’età dell’oro, e dunque ogni divenire storico, ogni procedere nel tempo, è considerato come un allontanarsi dalla verità e un decadere da uno stato di perfezione.1
“La tradizione - scrive ancora - non è il culto del passato o la nostalgia di un tempo perduto, ma è il senso della continuità e la sacra importanza del permanente”2. Se lo dice un conservatore come Veneziani, dovrebbe farci riflettere.
Custodire o cancellare?
Veniamo allora al “conservare”. Qual è il contrario di “conservare”? Anche qui la risposta più immediata non è certo “progredire”, bensì “cancellare”, “dimenticare”, “disperdere”, “censurare”.
Se il conservatore è colui che cerca di fondare il progresso su una storia trascorsa, su dei valori permanenti e su una tradizione comunitaria, l’avversario del conservatore è colui che vuole cancellare la storia e i suoi protagonisti, affermare il relativismo (e dunque la nullità) di tutti i valori, eliminare la tradizione per porsi nella prospettiva di un eterno presente, privo di radici e di eredità.
Conservare il passato significa mantenere la memoria di ciò che è stato, ricordandoci che, come disse Bernardo di Chartres, “siamo nani sulle spalle di giganti”. Non significa, però, che da quella memoria non si possa (non si debba) ripartire per costruire un futuro diverso, capace allo stesso tempo di ricordare e di immaginare.
Ma il progressista non è necessariamente l’opposto di ciò. Non è colui che vuole demolire la storia; non è colui che desidera vivere in un continuo hic et nunc. Progredire significa essere consapevoli che tale storia si situa in un cammino progressivo, per l’appunto - che le radici sono importanti, ma che sono morte se non riescono a nutrire di linfa i germogli delle nuove primavere.
Il progressista crede che un’idea non possa essere considerata buona, bella e giusta semplicemente perché tradizionale, ma non per questo è destinato a cadere in una continua fallacia della novità, a sostituire il culto del passato con il culto del presente assoluto.
Conservare progredendo; progredire conservando
Forse allora progressismo e conservatorismo non sono poli contrapposti, ma atteggiamenti che possono convivere, in opposizione a due diversi estremismi: ovvero la dittatura del nostalgico e la tirannia dello sradicato.
Forse, allora, possiamo essere progressisti anche conservando; conservatori anche progredendo.
Forse, allora, la vera dicotomia è un’altra: quella tra coloro che mantenendo un filo diretto con il passato riescono a immaginare un nuovo futuro possibile, e coloro che, osannando o cancellando il passato, sono incapaci di tracciare nuove strade.
E noi, che viviamo di opposizioni e che ci nutriamo di dicotomie, dovremmo avere la forza critica e il coraggio di ripensarle e di metterle in dubbio, anche domani, anche al di fuori di questa newsletter, negli spazi quotidiani della nostra cittadinanza. Dovremmo avere l’immaginazione per sognare un mondo in cui Montecchi e Capuleti sappiano finalmente riconciliarsi nell’amore dei loro figli.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche, se già non l’hai fatto, di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscite e di seguirmi anche nei miei profili social come @whitewhalecafe
Che siate di destra o di sinistra (e ammesso che anche questa non sia una falsa dicotomia) vi consiglio in ogni caso il testo che ho già citato di Marcello Veneziani.
Non si può certo definire Nostalgia degli dei un testo liberal o “di sinistra”, ma qui non ci troviamo di fronte a un saggio di attivismo politico, quanto piuttosto al tentativo di delineare una visione del mondo che possa tracciare la rotta di un futuro possibile.
Con questa visione del mondo potreste non essere d’accordo: io stesso ho rischiato di perdere la pazienza di fronte a certe pagine e ho trovato, in alcuni capitoli, più retorica che sostanza. Ma altri paragrafi mi hanno colpito e incuriosito e, tutto sommato, l’ho trovata una lettura stimolante e interessante. Se vi sentite “di destra” potrete trovare qui un’esposizione approfondita e ricca di spunti su quella che potremmo definire “cultura conservatrice” (ma non regressiva); se vi sentite “di sinistra” potrete trovare qui un pungolo intellettuale in grado di interrogare la vostra visione del mondo, di rafforzarla per contrasto o, eventualmente, di metterla di dubbio.
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M. Veneziani, “Nostalgia degli dei - una visione del mondo in dieci idee”, Marsilio 2019, p. 140
Ibid, p. 127
Ho letto solo le prime righe, sono al lavoro e me lo salvo per quando avrò tempo, però già dalle prime righe penso sia un pensiero che dovrebbero leggere tutti.