Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio. Ma questa è la settimana di Sanremo, per cui oggi parliamo di musica!
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Non vi interessano le note che registro
Il 29 aprile 2011 Michele Salvemini, in arte Caparezza, faceva uscire un suo nuovo singolo, in cui lanciava un ritmato e vivace j’accuse contro la scena musicale contemporanea. Una scena musicale nella quale, a suo avviso, la spettacolarizzazione era diventata più importante del talento - nella quale, in altre parole, tutto si esauriva nel gossip, nei salotti tv, delle riviste patinate, nei pianti in pubblico e nelle facezie personali, e nella quale, della musica in sé, non fregava niente a nessuno.
Quel singolo si intitolava appunto Chi se ne frega della musica ed ebbe un discreto successo. Se non avete presente la canzone, ve la lascio qui sotto. Potete ascoltarla cercando di cogliere i tanti giochi di parole che fanno di Caparezza non necessariamente un bravo cantante, ma di certo un paroliere capace.
«Mi stupisco» esclama Caparezza, «pubblico un disco e mi fanno le foto in pubblico. Perché? Non capisco. Non vi interessano le note che registro, vi interessano le mie note sul registro!».
Ho sempre trovato questi versi geniali, perché veri. Guardiamoci intorno: quando parliamo di musica non parliamo quasi mai della musica, ma delle “note sul registro” dei vari cantanti. Ciò che attira la nostra attenzione, intendo, non è il brano in sé, non sono le note in sé, ma è lo spettacolo che le contiene, tutto ciò che succede attorno alla musica: il jet set e i suoi intrighi; gli scandali sentimentali; i dissing; i gossip; i siparietti; le prese di posizione; le battute; i giochi di sguardi; gli articoli di giornale; i commenti social; i meme; il chiacchiericcio; il vuoto bla bla bla. In questo scenario viene da chiedersi, con Caparezza: chi se ne frega della musica?
Sanremo e la società dello spettacolo
In Italia, questa intuizione caparezziana tocca il suo apice durante la settimana del Festival di Sanremo. È paradossale (ma tutt’altro che incomprensibile) il fenomeno per il quale, durante il Festival della canzone italiana, di canzoni si parli molto poco.
I commenti musicali, durante Sanremo, sono assai scarsi e si limitano, spesso, a constatazioni di grande banalità, del tipo: «Che voce!»; «Lui in effetti è molto bravo»; «Come interpreta il brano lei, nessun altro!»; «Arriva dritto al cuore!» nella speranza, in quest’ultimo caso, che non arrivi sotto forma di sincope cardiaca.
Ma non è questo che interessa, durante Sanremo. Ciò che interessa, ciò che fa audience è il siparietto di Fiorello, è la lite tra Morgan e Bugo, sono i testi diseducativi di Tony Effe, è Fedez (il nuovo nemico di Tony Effe) che sale sul palco dopo lo scandalo montato con astuzia acrobatica dal suo confidente Fabrizio Corona (mettere nella stessa frase “confidente” e “Fabrizio Corona” dovrebbe già far ridere di per sé). Ciò che interessa sono i vestiti sbrilluccicosi di conduttori e ospiti, è il generale Vannacci ospite in platea, è la competizione parallela del Fantasanremo, è quel senso di unità nazionale che soltanto Sanremo e i mondiali di calcio sanno suscitare.
E la musica? Niente. La musica viene divorata da quella che Guy Debord aveva definito “la società dello spettacolo”: una società in cui l’immagine e l’apparire valgono più della realtà e dell’essere. La musica non conta, conta il parlare della musica - conta far parte del fenomeno sociale, non sentirsi esclusi.
Ma facciamo un salto oltre e, con un atteggiamento del tutto controcorrente, parliamo invece proprio di musica. Attenzione: di musica, non dei testi, ché anche qui al giorno d’oggi c’è grande confusione. Credo di poter affermare senza farmi troppi nemici che, salvo in rari casi, la musica, al Festival dei fiori, sia un qualcosa di molto banale. Raramente incappiamo in melismi di particolar virtù, in armonie che escano dal dispotismo della triade “sottodominante-dominante-tonica”; in invenzioni ritmiche che possano far rialzare le palpebre ai poveri dinosauri televisivi accomodati in prima fila.
Questo fenomeno non riguarda soltanto Sanremo: riguarda un generale e diffuso abbassamento del livello musicale e dell’orecchio musicale, che da molti anni si diffonde come un virus (ripeto: sto parlando della musica, non dei testi). Viene allora da chiedersi perché abbiamo l’impressione che la musica sia sempre peggiore? Cos’è cambiato nel nostro modo di produrre e di fruire la musica, negli ultimi decenni? Proveremo a rispondere a questa domanda analizzando, dapprima, alcune questioni tecniche e soffermandoci, poi, su una prospettiva filosofica. Partiamo dagli aspetti tecnici.
Piccola nota: da qui in avanti assumerò come assodato il fatto che la musica sia sempre peggiore, ma qualcuno potrebbe giustamente pensare che non sia così. Non ho il tempo qui, per argomentare con la giusta cura questa posizione, ma se siete interessati a un’analisi più approfondita potete farmelo sapere rispondendo a questa newsletter.
Perché la musica è sempre peggiore?
Una prima causa dell’abbassamento del livello musicale può essere, forse, il fatto che produrre musica è diventato sempre più facile.
Ho sentito questa argomentazione in un video del musicista, produttore e youtuber americano Rick Beato e l’ho trovata convincente. Se masticate un po’ di inglese vi consiglio di vedere il video integrale e di passare poi al paragrafo successivo. In caso contrario, cerco di riassumervi di seguito il contenuto.
Beato mostra come, nel corso dei decenni, la produzione di musica abbia richiesto sempre meno abilità da parte di cantanti e musicisti. Per registrare un brano, Frank Sinatra, aveva bisogno di recarsi in uno studio e di cantare di fronte all’intera orchestra che suonava. Questo richiedeva un certo controllo della voce, un certo orecchio, la capacità di sincronizzarsi con gli altri musicisti... Se qualcosa andava storto, bisognava ripartire da capo.
Con l’introduzione dell’autotune e di altri sistemi per post-produrre elettronicamente la musica, la faccenda si è notevolmente semplificata. Questi strumenti permettono ora di cantare come se fosse intonato anche a chi intonato non è; di suonare come se andasse a ritmo, anche a chi a ritmo non sa andare. Sembra fantastico, ma c’è un’altra faccia della medaglia. Tutto ciò ha causato una serie di conseguenze negative, tra cui una perdita di diversità e di ricchezza espressiva. E questo sotto un duplice punto di vista.
Anzitutto da un punto di vista dell’abilita musicale del singolo artista. Ciò che, spesso, rende interessante un brano non è la perfetta intonazione, il ritmo perfettamente cadenzato, ma le piccolissime, quasi impercettibili sfumature che ogni cantante o musicista tratteggia e che la correzione tecnologica finisce, diligentemente, per appiattire. Beato fa l’esempio di un assolo di batteria in un brano dei Led Zeppelin. John Bonham non va perfettamente a ritmo ma, pur rimanendo all’interno del ritmo del brano, si concede, nelle singole battute, delle piccole deviazioni dal tempo. Variazioni che rendono l’ascolto, nel suo complesso, molto più ricco e interessante. Chiaramente tutto ciò è molto diverso dall’andare fuori ritmo o dal cantare stonati.
Il secondo punto di vista sotto il quale la semplificazione della produzione musicale compromette la ricchezza espressiva è più generale e deriva dal fatto che molti artisti, musicalmente incompetenti, non utilizzano questi strumenti tecnologici per aumentare la propria creatività (cosa che, senza dubbio, sarebbe possibile), ma per compensare la carenza di creatività. Questo significa che avremo sempre più brani che sfruttano la stessa strumentazione, le stesse tracce ritmiche acquistate a stock, gli stessi effetti sonori. Ascolteremo canzoni diverse, ma avremo l’impressione di sentire sempre la stessa minestra riscaldata.
Siamo cioè di fronte a un’omogeneizzazione della musica e a una vittoria della quantità sulla qualità, che disabitua il nostro orecchio a cogliere le sfumature e le differenze.
La musica dappertutto
Ma non è solo questo il problema.
Lo scorso mese leggevo Antichi Maestri: un romanzo di Thomas Bernhard che, come tutti i romanzi di Bernhard, non è che una feroce critica verso la società e verso le contraddizioni dell’essere umano. Una critica a tratti cieca, meschina, stucchevole, subdola, ma che nasconde al suo interno pagine di estrema lucidità. In una di queste pagine, Bernhard scrive così:
L’ascolto della musica non è più un fatto eccezionale, lei oggi sente musica dappertutto, in qualunque posto si trovi, è addirittura costretto ad ascoltare musica in ogni supermercato, in ogni ambulatorio medico, a ogni angolo di strada, lei oggi non può più in alcun modo sottrarsi alla musica, anche se vuole evitarla non può farlo, tutta la nostra epoca ha un sottofondo musicale, questa è la catastrofe […]. Gli esseri umani vengono quotidianamente rimpinzati di musica da così tanto tempo che tutti ormai hanno perso qualsiasi sensibilità musicale.
Credo sia precisamente questa la seconda causa della perdita di qualità musicale a cui stiamo assistendo. Oggi la musica non è più un’esperienza scelta, un qualcosa a cui si dedica del tempo, si presta attenzione e concentrazione. La musica, oggi, è diventata un semplice sottofondo: qualcosa che se ne sta lì, finché noi siamo impegnati a fare qualcos’altro, come la vita nella famosa citazione di John Lennon.
Quand’è l’ultima volta che vi siete seduti ad ascoltare della musica, fermi, concentrati, intenti soltanto a godervi l’ascolto?
Certo, la musica è sempre stata anche sottofondo, ma oggi la sottofondità è diventata la forma peculiare dell’ascolto musicale per la maggior parte delle persone. Va da sé che il cambiamento della nostra attitudine all’ascolto ha abbassato le capacità del nostro orecchio, perché esso non viene più esercitato.
Messa di fronte a una suite di Bach o a una sinfonia di Beethoven la massa delle persone proverà addirittura un senso di noia, non perché Bach e Beethoven siano d’improvviso diventati noiosi, ma perché, dinanzi ad architetture così complesse, le persone si trovano nella stessa condizione di chi venisse messo di fronte a un qualche articolato macchinario industriale, senza alcuna nozione di ingegneria: non sanno cosa cercare, dove guardare, come orientarsi in quel labirinto di ingranaggi e leve.
Se non ci rieduchiamo all’ascolto, se non ascoltiamo mai la musica direttamente, ma solo come sottofondo, ci accontenteremo di composizioni sempre più semplici: un banale accumulo di scale e arpeggi sarà il massimo che il nostro orecchio saprà interpretare e digerire.
Il politicamente corretto e la paura del giudizio
C’è un ultimo fatto a cui vorrei accennare: credo che un ruolo importante in tutto ciò lo abbia avuto anche il diffondersi del cosiddetto “politicamente corretto” in campo artistico: l’idea, cioè, che nel giudicare un’opera d’arte l’equità e l’inclusività siano criteri più importanti (o almeno parimenti importanti) della bellezza e del talento. Prendo a prestito le parole di Roger Scruton al riguardo (lascio qui il suo intervento completo, per chi volesse ascoltare).
L’idea per cui esiste una differenza tra ciò che è bello e ciò che è brutto; tra ciò che è significativo e ciò che è irrilevante; tra ciò che è profondo e ciò che è superficiale; tra ciò che è emozionante e ciò che invece è banale… questa idea una volta era fondamentale ai fini dell’educazione musicale. Ma tale idea va contro il politicamente corretto. Oggigiorno esiste solo il mio gusto e il tuo. Il pensiero che il mio gusto possa essere migliore del tuo è considerato elitista e contrario all’equità […]. Nonostante ciò, la capacità di giudizio rimane la precondizione per la comprensione dell’arte e per il reale godimento che da essa deriva.
Oggi è molto difficile poter affermare che un genere è migliore di un altro, che una certa idea musicale è più interessante di un’altra, che un certo artista è più dotato di un altro, perché si rischia di essere tacciati di esclusività. Tutto finisce nel calderone del relativismo (“Mozart non è oggettivamente più importante, più dotato, più tecnicamente capace di Lady Gaga. Sono soltanto gusti differenti”) o dell’inclusività (“quel musicista non è meno talentuoso, ha semplicemente avuto meno possibilità di studiare con bravi maestri”). Si finisce così per scambiare il piacere (che è pienamente soggettivo) con la bellezza (che è parzialmente oggettiva); si finisce per scambiare un giudizio estetico, privo di intenzioni discriminatorie, per un giudizio politico; si finisce per aprire la strada a chiunque per paura di sbarrarla a qualcuno.
In questo modo il giudizio viene anch’esso relativizzato e, con esso, la nostra possibilità di distinguere la buona musica dalla cattiva musica.
Credo che alla base di tutto ciò ci sia un grosso errore di valutazione. Non perché l’inclusività non sia un valore, o perché dovemmo smettere di perseguire l’equità politica. Ma perché non tutto ciò che non è inclusivo è, automaticamente, esclusivo. Tra la moralità e l’immoralità esiste un grande spazio, che è lo spazio della a-moralità: di tutto ciò che non ha necessariamente a che fare con l’etica e con la giustizia sociale. Ci sono ambiti, e l’arte è uno tra questi, in cui l’inclusività è semplicemente un criterio secondario, che può aggiungere valore, certo, ma solo lì dove si trovi già un qualche valore estetico e artistico.
Rieducare alla musica
Siamo spacciati? Non credo. Tuttavia è necessario mettere in moto una rivoluzione culturale, che ci conduca a far pace con la bellezza, a riconoscere che la musica non è soltanto spettacolo, né soltanto il riflesso di battaglie sociali e politiche, ma che è prima di tutto un linguaggio, con la sua grammatica, con le sue regole, le quali si basano in parte su criteri di gusto soggettivo e in altra parte su misure oggettive.
Iniziare a farlo è molto semplice: basta prendersi del tempo, ritagliarsi uno spazio di solitudine, chiudere gli occhi, restare seduti e ascoltare.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche che puoi condividere questa newsletter con i tuoi amici e conoscenti, in modo da aiutarmi a diffondere il mio progetto!
Visto che abbiamo parlato di musica, vi consiglio il testo di un grande maestro. Daniel Barenboim non è stato soltanto un grande pianista e un grande direttore d’orchestra, ma anche un intellettuale, che sulla musica ha riflettuto e scritto.
La musica sveglia il tempo, dice lo stesso Barenboim, «non è un libro per musicisti o per non-musicisti, è piuttosto un libro per le menti curiose di scoprire le corrispondenze fra musica e vita, e la saggezza che diventa comprensibile all'orecchio pensante. Tali scoperte non sono privilegi riservati ai musicisti di grande talento che fin dalla più tenera età ricevono un’educazione musicale, né una torre d'avorio o un lusso riservato ai ricchi; sono convinto che sviluppare l'intelligenza dell'orecchio sia una necessità fondamentale».
Se volete sostenere il mio progetto di divulgazione, un modo per farlo è acquistare il testo dalla mia pagina di affiliazione Amazon (qui). Per voi il prezzo rimarrà lo stesso, ma una piccola percentuale mi verrà riconosciuta dalla piattaforma. Grazie e buona lettura.
Caro Eugenio, grazie di questo contributo che trovo estremamente interessante e ricco di spunti, come sempre. Aggiungo una nota che può essere vista come una postilla all'argomento della spettacolarizzazione. Riguarda la ricerca ossessiva, da parte sia di chi produce (passami il termine) musica (ma possiamo metterci pure tutte le altre forme d'arte) sia di chi fruisce, dell'emozione o meglio, di una risposta emotiva, di toccare l'emotività. Mi viene in mente un'espressione che io trovo odiosa e che sento spesso nelle clip dei talent che mi passano sotto gli occhi: "Mi sei arrivato, questa canzone mi arriva". Ecco spesso, troppo spesso ci si ferma lì, a quello che arriva, ma poi dove ti porta? Ed è questo il problema: si resta alla superficie dell'emotività che non diventa strumento per andare oltre, per conoscere, ma diventa fine a se stessa.
Non sto negando il ruolo dell'emozione, trovo molto interessanti gli studi di Martha Nussbaum e i lavori di vari filosofi sulla svolta affettiva nel pensiero contemporaneo, anche partiti da un insospettabile John Rawls, ma è quando ci si limita al feeling il problema, a quello stato di sentire che non chiede niente di più, nessuno sforzo, nessun passaggio.
E mi viene in mente un periodo di un libretto delizioso che ti consiglio "Sette brevi lezioni di fisica" di Rovelli che scrive: "Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l'Odissea, La Cappella Sistina, Re Lear...Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l'aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo".
Questo non significa che la musica o l'arte in genere debba essere tutta comprensibile esclusivamente dopo lunghi sforzi, anzi, ci sono grandissimi artisti, mi vengono in mente in letteratura Jane Austin o Calvino, in musica penso a De Andrè, ma pure allo stesso Mozart, che offrono più livelli di lettura: sono affrontabili da diversissimi background culturali, e il loro bello, la loro genialità sta proprio nel fatto che puoi andare sempre oltre, man mano che cresci, che impari, trovi in loro nuove cose, sfumature, ti portano sempre un po' più in là da dove sei partito. In apparente estrema facilità. Ma è una semplicità stratificata, densa, ricca.
Ciao!
Ciao!
Ciao, ti ringrazio per questa riflessione su un tema importante come la musica.
Complimenti per le argomentazioni e la tua capacità di fare chiarezza, come sempre impeccabili, questi tre punti rappresentano certamente degli elementi importanti per il degrado della musica pop, sebbene non sento di dire che sono esaurienti.
Ciò che sento di criticare è proprio il fatto, da cui tu parti, che la musica (in toto) sia peggiorata. Sento che non abbiamo nulla da invidiare al passato, oggi ci sono ottimi artisti e pessimi artisti così come ieri. In più, oggi godiamo di un'abbondanza di generi e stili senza precedenti: nel seicento c'era solo la musica barocca, oggi abbiamo il pop, l'elettronica, l'ambient, il rock, il metal, il jazz eccetera. Basta essere appassionati di un qualche genere per scoprire artisti estremamente talentuosi e brani veramente curati e profondi. Qualche esempio, per il death metal questa non mi sembra un'epoca oscura: un artista come Igorrr produce brani energici, fantasiosi, imprevedibili ed estremamente studiati. Anche nella musica pop ci sono punte di diamante, per esempio il gruppo La Femme propone brani sempre diversi e mai noiosi, allo stesso modo Jacob Collier. Sotto la patina degli artisti da radio si scoprono gemme.
Il problema è che i buoni artisti sono sconosciuti. Ai suoi tempi Beethoven era una superstar, oggi avrebbe qualche migliaio di ascoltatori su Spotify. Oggi gli artisti piú famosi sono anche estremamente mediocri e quelli che valgono bisogna cercarli faticosamente, e raramente ottengono dischi d'oro e Grammy.
Non sono peggiorati gli artisti ma gli ascoltatori. I grandi non sono famosi e non ottengono premi. Non si deve parlare di decadenza della musica, ma di decadenza dei gusti.
Credo che più che l'elemento fondamentale per la decadenza dei gusti sia il marketing musicale: la musica non é piú pensata come una forma d'arte ma come un mezzo per fare soldi, chi la produce ha la necessità che tutti ascoltino, anche chi non sarebbe disposto. La musica pop oggi é fatta per chi non ama la musica. Molti infatti la vivono solo come sottofondo o per le occasioni conviviali (va bene, ci sta) e praticamente tutta la musica che diventa famosa è fatta per loro (questo non ci sta). Non é questione di politicamente corretto (non c'entra nessuna sensibilità verso gli oppressi), é puro marketing. Una volta era richiesto una certa elasticità mentale all'ascoltatore base, ora si cerca di essere comodi all'orecchio, ottimi al primo ascolto, scaduti dopo due mesi: perfetto dal punto di vista economico. Nell'articolo fai anche riferimento ai nuovi mezzi di produzione della musica, ma anche questo va visto in un'ottica puramente economica. Lo stile non é reso appiattito per dare una possibilità in piú ai cantanti meno talentuosi (chi se ne frega?) ma per produrre brani rapidamente, in modo omologato, in serie, senza ispirazione. Ottimo per gli orecchi piú indisposti e quindi per le tasche dei produttori.
Come dice Rancore, "musica di plastica".
Cosa ne pensi?
Ciao, non vedo l'ora di leggere altri tuoi post!