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Vivere nei boschi
Il 4 luglio 1845 gli Stati Uniti d’America festeggiavano sessantanove anni di vita, sessantanove anni da quella dichiarazione d’indipendenza che li aveva emancipati per sempre dalla corona britannica.
Immagino che, quel 4 luglio, molti americani abbiano percorso le vie dei centri cittadini con il cuore pieno di gioia e il fegato carico di whiskey di segale; immagino che qualcuno abbia intonato inni militari della Rivoluzione fino a tarda sera; che in molti si siano recati in qualche chiesa metodista per una preghiera rivolta ai propri cari caduti al fianco del capitano Washington; che altrettanti abbiano divorato bistecche al sangue su grandi tavolate decorate con coccarde a stelle e strisce.
Ma non tutti gli americani, il 4 luglio 1845, stavano festeggiando. Henry David Thoreau, scrittore naïf, poeta trascendentalista e attivista civile, quel giorno serrava per bene i battenti della sua casa di Concord, si allacciava gli stivali e, con pochi averi nel suo bagaglio, si ritirava in solitudine sulle rive del lago di Walden, in mezzo ai boschi, dove avrebbe vissuto per due anni, fino al 6 settembre 1847, nel tentativo di ricercare un rapporto più intimo con la natura e di fuggire da una società che, ai suoi occhi, era ormai schiava del più becero utilitarismo.
Nel resoconto di quell’esperienza, Walden, ovvero vita nei boschi, Thoreau scriverà alcune pagine divenute celeberrime. E, cosa che non accade spesso, la più celebre è al contempo la più bella e la più profonda:
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
Per Thoreau, insomma, l’unica vera vita era la vita a contatto con la natura incontaminata.
Thoreau, l’abbiamo detto, era uno scrittore trascendentalista, ma non era certo la mente più fine di questo circolo intellettuale. Anzi, era più che altro un uomo d’azione, più un Garibaldi che un Mazzini… ecco. La vera mente del trascendentalismo, colui che aveva ispirato l’azione di Thoreau così come quella di molti altri, era proprio il proprietario di quei terreni sui quali quest’ultimo aveva costruito il suo capanno: un signore dal naso pronunciato e dallo sguardo azzurro ghiaccio di nome Ralph Waldo Emerson.
Undici anni prima, Emerson aveva pubblicato un saggio (uno dei tantissimi saggi che pubblicherà nel corso della sua vita) intitolato appunto Natura, in cui si spingeva molto più in profondità dal punto di vista filosofico. Scriveva ad esempio:
Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede. Lì sento che nulla può accedere alla mia vita. […] In piedi sulla nuda terra - con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata verso lo spazio infinito - ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi attraversano; sono una parte o una particella di Dio.
Forse ci troviamo più di fronte a una mistica che a una filosofia: se fosse il testo di una canzone, sarebbe una canzone di Battiato. Ma sicuramente quella che qui viene espressa è una visione incantata della natura selvaggia che si è fatta strada (non solo in America, ma anche nei vari romanticismi europei) e che è in parte sopravvissuta fino ad oggi, non solo in certe correnti ambientaliste o artistiche, ma anche nel pensiero comune di molti di noi. Le avvisaglie più recenti sono ritrovabili, ad esempio, in Into the Wild, il bellissimo film di Sean Penn che racconta le avventure di Christopher McCandless.
Nella nostra cultura sopravvive l’idea di una natura pura e risanante, nella quale immergersi è meraviglioso; una natura incontaminata che ci permette di ritrovare la nostra vera essenza, di abbandonare per un po’ le finzioni della società e di sperimentare una comunione benefica con il Tutto. È quella natura che ricerchiamo quando ci avventuriamo nei sentieri di montagna; quando guardiamo un cielo stellato; quando decidiamo di visitare l’Islanda o il Grand Canyon.
Ma sono sempre stati questi gli occhi con cui abbiamo guardato la natura?
Com-prendere la natura con la razionalità
Assolutamente no. Molto probabilmente di fronte all’immensità di una montagna o alla bellezza di un cielo stellato l’umanità ha sempre provato un senso di meraviglia e di ammirazione, ma quel senso di meraviglia, per moltissimo tempo, non è stata la prima cosa a cui si pensava quando si pensava alla natura. Né la seconda. E probabilmente nemmeno la terza.
Un uomo del Cinquecento non si sarebbe mai sognato di arrampicarsi su una cima innevata per il puro piacere di farlo (“Follia!”, avrebbe pensato), né avrebbe volontariamente abbandonato una casa di mattoni per trasferirsi in uno scomodo capanno di legno tra i boschi, né avrebbe speso i suoi risparmi per trascorrere una settimana in Alaska in mezzo alle renne e agli orsi, a meno che non fosse un commerciante di pellicce.
Forse ci siamo dimenticati di questo - forse diamo per scontato che il nostro rapporto con il mondo sia sempre stato così, ma prima dello Sturm und Drang, prima di Schiller, di Novalis, prima dei quadri di Friedrich e delle sinfonie di Brahms la natura era qualcosa di diverso: il contraltare dell’uomo, che l’uomo doveva, in nome della propria razionalità, com-prendere, cioè prendere sotto di sé, possedere, addomesticare.
Galileo, dichiarando che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico, secoli prima aveva aperto la strada alla possibilità di decifrare con la logica e con la ragione quella selva oscura che solo apparentemente risultava incomprensibile.
La natura era, per il pensiero moderno, un insieme di leggi, di forze, di azioni e reazioni che l’intelletto doveva scandagliare con rigore e con freddezza, perché in quel modo avrebbe potuto non soltanto capirla, ma condurla a sé, ai propri scopi, al miglioramento di quelle che Leopardi, deridendole, chiamerà “le magnifiche sorti e progressive”.
La “natura selvaggia” dunque, la wilderness, era più che altro un qualcosa di negativo: quella parte del mondo che sfuggiva (momentaneamente) al controllo dell’uomo e che l’umanità doveva, proprio come in un film con John Wayne, ricondurre alla civiltà. Niente boschi incontaminati dunque. Molto meglio un bel giardino all’inglese curato, tra i cui sentieri di ghiaia qualsiasi scarpa verniciata poteva passeggiare indisturbata.
Il passaggio dalla visione moderna della natura alla visione romantica (visioni che, si badi, non sono da intendersi necessariamente come dicotomiche, ma che spesso risultano complementari!) avviene per mezzo di alcune figure che chiamerei guardiani della soglia - delle specie di Giani bifronte che, nel vivere un’epoca di grandi transizioni, mantennero una faccia rivolta verso il passato illuminista e un’altra faccia aperta verso qualcosa che fino ad allora non era mai stato pensato. Personaggi che, in ambiti diversi, si posero su una soglia, appunto, che separava il vecchio mondo dal mondo nuovo, abitandoli entrambi.
I guardiani della soglia sono probabilmente molti, ma se mi si chiedesse di nominarne tre, direi Beethoven per la musica, Goethe per la letteratura e Immanuel Kant per la filosofia.
Il tribunale della Ragione
Ci soffermeremo ora brevemente sull’ultima di queste figure, ma se volete approfondire la rivoluzione beethoveniana e se vi trovate nei pressi di Vicenza, questo weekend terrò due conferenze-concerto (venerdì alle 18.00 al teatro civico di Schio e sabato alle 20.00 al teatro Millepini di Asiago) dal titolo: “La Pastorale - l’invenzione della natura romantica”. Approfondirò il discorso iniziato in questa newsletter con particolare attenzione alla musica di Beethoven e ascolteremo poi la Sinfonia n.6, eseguita dall’Orchestra Crescere in musica. Non mancate!
Kant, dicevamo, rappresenta il più grande compimento del pensiero illuminista. Un pensatore che più di ogni altro credette nelle possibilità della Ragione di civilizzare il mondo, tanto da avere l’ardire di ergere la Ragione al ruolo di giudice di se stessa.
Se volessimo riassumere in pochissime righe quel testo maestoso, potente e mai del tutto compeso che è la Critica della Ragione Pura, dovremmo spiegare che l’obiettivo di Kant non è che questo: indagare, per mezzo della stessa Ragione, il funzionamento della Ragione.
Anche solo questo semplice intento svela la faccia illuminista di Giano: la Ragione diventa per Kant l’unica autorità che può indagare su di sé. Non esiste nessun altro che abbia la statura per farlo, nulla che si ponga al di sopra della nostra stessa razionalità.
Ma è proprio lungo le centinaia di pagine di questa lunga elucubrazione intellettuale, di questo tracotante inno razionalista, che l’Illuminismo esprime il suo canto del cigno.
Quest’opera, che era stata il più grande parto della fede dell’uomo nelle sue proprie facoltà, aveva finito per attestare il più grande limite dell’intelletto: la sua irrisolvibile incapacità di produrre conoscenza certa di ciò che si spinge oltre il limite del sensibile - l’impossibilità, cioè, di avere una qualsiasi forma di certezza riguardo alla nostra anima, alla nostra libertà, all’esistenza dell’eternità, alla fede in Dio.
Sisifo e la tragedia umana
Il trionfo della Ragione finiva insomma per incarcerare l’Intelletto nella prigione dell’empirico, del mondo fisico, ribadendo il suo primato in quel mondo, ma dimostrando il suo fallimento nell’indagare quelle domande che sono le più care a tutti noi: Perché vivo? Che scopo ha la mia vita? Sono veramente libero?
Le prime righe della Critica kantiana, che proprio come i grandi film hollywoodiani parte dall’epilogo dell’intero ragionamento, trasuda una tragicità, un dolore, che quasi mai viene riconosciuto a Kant, dipinto ingiustamente come un intellettuale grigio e privo di empatia:
La ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non può respingere […], ma alle quali essa non può neppure dare risposta, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa […]. Si vede allora costretta a rifugiarsi in proposizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibile esperienza e […] così facendo essa cade in oscurità e contraddizioni.
L’uomo, ci dice Kant, è come Sisifo, costretto dalla sua stessa ragione ha tentare la scalata dell’Olimpo per ottenere risposta ad alcune domande fondamentali, e allo stesso tempo incapace di dare risposta a queste domande, che oltrepassano le possibilità della stessa ragione. Ci troviamo così scaraventati di nuovo in basso, nella melma dell’ignoranza, desiderosi del cielo, ma inabili a volare.
La natura e il sentimento
E cosa c’entra la natura in tutto ciò? È presto detto.
Una volta appurati i limiti dell’intelletto, Giano bifronte mostra l’altra sua faccia, quella che apre la strada al futuro, al nuovo. Se le speculazioni intellettuali sono incapaci di dischiuderci le porte all’assoluto, dice Kant, all’uomo rimangono però le corde del sentimento che, seppur non possano farci raggiungere il grado di certezza tipico della scienza, ci permettono di percepire la nostra moralità - stabiliscono un contatto con la parte più profonda di noi, danno un senso al nostro sentirci liberi, alla nostra sete di infinito.
E la natura, per Kant, è, assieme all’arte, strumento privilegiato per la stimolazione del sentimento. Scriverà infatti nella Critica della facoltà di giudizio:
Affermo che avere un interesse immediato per la bellezza della natura […] è sempre contrassegno di un’anima buona, e che tale interesse, se è abituale, denota almeno una disposizione dell’animo al sentimento morale, allorché esso si lega volentieri con la visione della natura.
Ma per il genio di Königsberg la bellezza naturale, che mantiene un primato su ogni altra forma di bellezza, non è una bellezza orientata alla com-prensione, al possesso degli elementi naturali. È invece un interesse intellettuale e disinteressato che, più che comprendere, mira a sentirsi compresi:
Ha interesse […] per la bellezza della natura chi riguarda la bella forma di un fiore selvatico, di un uccello, di un insetto, e così via, in solitudine […]. Non semplicemente un prodotto della natura gli piace per la forma, ma gli piace anche la sua esistenza, senza che vi abbia parte un’attrattiva dei sensi o che egli vi leghi inoltre un qualche scopo.
Ecco allora che la natura incontaminata riacquista valore, ecco che “vivere nei boschi” può diventare veramente una forma di saggezza. Non una saggezza positiva e scientifica, la quale si acquisisce soltanto tramite l’esercizio dell’intelletto e della razionalità; ma una saggezza sentimentale che ci può aiutare a cogliere una parte sostanziale della nostra umanità.
Al di là delle dicotomie che troppe volte tracciamo, spinti a vedere il mondo o bianco o nero, queste due anime, queste due facce di Giano convivono in noi, ed entrambe vanno conosciute ed esercitate per non scoprire, in punto di morte, che non avevamo vissuto.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche che puoi condividere questa newsletter con i tuoi amici e conoscenti, in modo da aiutarmi a diffondere il mio progetto!
Visto che ne abbiamo accennato, vi consiglio l’ascolto della Sinfonia n.6 “Pastorale”, di Beethoven, altro grande punto di soglia nel quale si passa da una visione classica a una visione romantica della natura (e della musica).
Composta negli stessi anni della più drammatica Sinfonia n.5, la “Pastorale” ha un carattere completamente diverso da quello del Beethoven tragico a cui tutti noi pensiamo quando immaginiamo il genio di Bonn. La sesta sinfonia, infatti, è un brano solare, luminoso, gioioso, nel quale il compositore cerca di esprimere in musica i sentimenti benefici del rapporto con la campagna, cioè di quel luogo in cui uomo e natura convivono ancora in comunione e pace.
Come se sostare nella natura potesse rappresentare, per lo stesso Beethoven, un’oasi di serenità capace di allontanarlo dal dramma dell’esistenza.
Per comprendere ancora meglio ciò che dico, consiglio di ascoltare in sequenza il primo movimento della quinta e il primo movimento della sesta!