Le storie vanno ascoltate?
Negli ultimi mesi ho riflettuto molto sulla centralità della vista nella nostra cultura. Tutto ciò che facciamo, o quasi, passa per la vista. Me ne sono reso conto quando, qualche mese fa, ho iniziato per la prima volta ad ascoltare dei libri, oltre che a leggerli, comprendendo che l’esperienza della narrazione poteva contenere sfumature delle quali non ero consapevole.
Vorrei dunque partire da qui per riflettere assieme a voi sulla centralità del senso della vista e sull’esigenza, troppo poco sentita, di far spazio ad altre sensazioni.
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La forza e l’astuzia
La nostra civiltà, lo sappiamo sin dai tempi della scuola, si erge su due grandi storie, due grandi poemi nati nella Grecia arcaica e composti da una figura che, sia per le vicende che tratta, sia per la sua esistenza personale, si situa a metà tra la storia e il mito: Omero, il padre di tutti i narratori.
I poemi che Omero scrive (o, per meglio dire, i poemi che Omero recita) sono due; intrecciati tra loro, ma molto diversi l’uno dall’altro: l’Iliade, il poema della forza, e l’Odissea, il poema dell’astuzia. la nostra civiltà, cioè, si basa su due istinti apparentemente contrapposti, la forza e l’astuzia, che si incarnano in varie figure oppositive, in vari archetipi che affrescano il cielo della nostra mitologia: Giacobbe ed Esaù; Romolo e Remo; Loki e Thor, solo per citarne alcuni. Ma i più importanti exempla di queste virtù, nella nostra civiltà, sono i due protagonisti omerici: Achille e Odisseo.
Studiare l’Iliade e l’Odissea non è importante solo per conoscere le storie sulle quali siamo cresciuti, ma anche per riflettere su alcune categorie concettuali sulle quali la nostra civiltà si è fondata.
Non voglio sposare una visione relativista secondo cui il nostro modo di vivere si basa unicamente su strutture narrative (che avrebbero potuto essere diverse, in culture diverse). È probabile, anzi, che al di sotto del mito si nascondano alcune verità universali e, non a caso, l’opposizione forza-saggezza la si ritrova anche in culture molto lontane (come nei fratelli Ganesha e Kartikkeya della tradizione indù). Ma queste verità, nella nostra civiltà, si sono incarnate in alcune strutture particolari. Conoscerle significa conoscere meglio chi siamo.
Ciclope accecato
Ma ho già divagato abbastanza da quello che vorrei fosse il tema centrale di questa newsletter: il primato che la nostra civiltà ha assegnato alla vista, rispetto agli altri sensi. Per capire in cosa consista questo primato e quali siano le sue radici, devo però servirmi proprio di uno dei miti omerici, l’Odissea, e di una delle figure più interessanti tra le tante che affollano i suoi canti: il ciclope Polifemo. Ulisse, conosciamo il mito, sbarca nell’isola dei ciclopi e, spinto dalla sua solita, irrefrenabile curiosità, visita una caverna in cui incontra Polifemo, un gigante rude e incolto che cercherà di divorare tutta la sua ciurma.
Ma perché Polifemo ha un occhio solo? Beh, semplice - direte voi - perché è un ciclope. E nella mitologia, i ciclopi hanno un occhio solo. Questa spiegazione è addirittura lapalissiana, ma non è l’unica spiegazione possibile. Come in ogni mito, infatti, accanto a un significato letterale si pone sempre un significato metaforico. E metaforicamente, la scarsa vista del ciclope, che finirà poi completamente accecato, è il simbolo della sua grettezza, in contrapposizione all’astuzia di Ulisse.
All’interno di quella miniera di archetipi che è la narrazione omerica, Ciclope è l’archetipo del bruto, del barbaro, dall’animalità che si oppone alla razionalità, cioè che si oppone alla virtù principale di tutta l’opera. E Omero, per rappresentare la brutalità, decide di usare il simbolo della cecità. Nei millenni a seguire, la cecità diventerà sempre di più la metafora dell’ignoranza, mentre, di conseguenza, il senso della vista sarà identificato come il senso che, più d’ogni altro, conduce alla saggezza. Vedo, dunque sono: inconsapevolmente il nostro Occidente si fonda su questo assioma fondamentale.
Il primato della vista
Mi vengono in mente innumerevoli esempi che attestano questo primato. Ve ne voglio elencare qualcuno a partire, ovviamente, dalla filosofia.
Platone, padre di tutti i filosofi, utilizza ampiamente la metafora della vista per parlare di conoscenza. Nel suo racconto più celebre, il mito della caverna, il prigioniero che vede solo ombre è simbolo di una condizione di ignoranza, mentre il sole (cioè l’astro che con la sua luce permette l’esercizio della vista) rappresenta l’idea del Bene, cioè la più alta tra le verità dell’Iperuranio platonico.
Aristotele, allievo prediletto di Platone, renderà il tutto molto più esplicito scrivendo, all’inizio della sua Metafisica, che «tutti gli uomini per natura tendono al sapere», che «segno ne è l’amore per le sensazioni» e che «più di tutte, amano la sensazione della vista».
L’Illuminismo, molti secoli dopo, ancora parlerà di lume della ragione, collegando direttamente razionalità e visione.
Ma l’oculocentrismo, chiamiamolo così, si estende ben al di là della filosofia: nelle religioni monoteiste, ad esempio, Dio è la luce del mondo, colui che permette di vedere. Persino il nostro linguaggio è permeato di questa identificazione tra conoscenza e vista: pre-visione; pre-videnza; pre-veggenza sono tutte parole che identificano una capacità di conoscere anticipatamente, ma che, per parlare di questa conoscenza, utilizzano la metafora dell’occhio. Diciamo poi di essere accecati dalla rabbia, quando vogliamo giustificare la nostra incapacità di pensare lucidamente; di vederci chiaro quando finalmente abbiamo risolto un dilemma; “vediamo un po’!” è un modo di dire che apre molte nostre elucubrazioni e quando vogliamo esprimere il nostro pensiero, la nostra opinione, diciamo di esprimere il nostro punto di vista.
Questo primato si riflette anche sul modo in cui giudichiamo il mondo. La pittura (prettamente visiva) è la regina delle arti e anche quando abbiamo a che fare con arti non preminentemente visive, come la cucina, aggiungiamo, con toni correttivi, che anche l’occhio vuole la sua parte. Mentre non mi è mai successo, in una mostra dedicata a Van Gogh, di sentire dire a qualcuno che, non so… “anche il tatto vuole la sua parte”. Me lo immagino già, io, un visitatore del Louvre che si mette a palpeggiare “Amore e Psiche” lamentando l’assenza di morbidezza e dicendo alla guardia, accorsa preoccupata sul posto, che la scultura è bella sì, ma che in quanto a consistenza… Accettiamo, insomma, che qualcosa non sia tattile, non sia gustoso, non sia orecchiabile, ma tutto dev’essere visivo. Conoscere significa vedere.
L’occhio che vede, l’occhio che piange
Derrida non è un filosofo che amo, tutt’altro. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e devo introdurre in questo paragrafo la figura di Derrida, perché egli ha il merito di essere stato forse il primo (e, se non il primo, almeno il più convinto) decostruttore dell’oculocentrismo. In diversi suoi scritti il filosofo franco-algerino ha sottolineato questo primato occidentale della vista. Vedere, spiega Derrida, significa per la nostra cultura cogliere l’oggetto così com’è, senza mediazione, e quindi l’atto del vedere è stato storicamente associato alla forma più pura di sapere. La filosofia ha costruito un sistema in cui vedere è garanzia di verità - in cui la verità coincide con il fatto di aver presente qualcosa davanti agli occhi, davanti alla mente.
Ma Derrida, da buon decostruttivista, cerca di mostrare le fragilità di questa concezione e lo fa a partire da un’immagine poetica: trasformando l’occhio da sede della vista a sede del pianto. Quando immaginiamo l’occhio non più come organo della vista, ma come organo del pianto, entra in gioco un'altra dimensione: l’occhio che non vede e che si chiude, che sente, soffre, esprime. In questo contesto, Derrida esplora l’idea che la vulnerabilità dell’occhio, la sua capacità di piangere, sia un gesto che sfugge al controllo della razionalità visiva.
Credo (e mi tengo sull’ipotetico, perché con Derrida ho sempre l’impressione che egli giochi con la nostra incomprensione, che la sfrutti, che ne goda) che introducendo questa immagine egli stia cercando di dirci fondamentalmente una cosa: che se restiamo fermi su una visione oculocentrica della conoscenza, allora i limiti dell’occhio diventeranno anche i limiti della nostra capacità di capire il mondo.
L’intelligenza visiva, percettiva, analitica, razionale è fondamentale e io penso che il suo primato sia ben motivato. Non andiamo da nessuna parte se non sappiamo leggere (altra metafora visiva!) la realtà. Ma questa forma di intelligenza non è l’unica di cui dovremmo dotarci ed è necessario che il nostro approccio al mondo si fondi anche su ciò che non è prettamente visibile.
Conoscere con gli altri sensi
Da qui in avanti si aprirebbe lo spazio per un intero trattato di filosofia. Cosa significhi “conoscere il mondo al di là della vista” è una domanda troppo ampia per poter essere evasa nelle poche righe che ancora abbiamo a nostra disposizione. Vorrei però provare a fornire degli spunti - nulla di più che semplici punti di partenza - con cui ragionare su cosa gli altri sensi ci insegnino a proposito dell’intelligenza e su come il nostro approccio al mondo possa essere più completo.
1. Udito
Se vi piace guardare video musicali avrete notato che spesso i musicisti, nei momenti di massima concentrazione, chiudono gli occhi. È un gesto involontario, ma significativo. La musica, infatti, si fonda anzitutto sull’ascolto e l’ascolto, nella sua massima intensità, richiede di smettere di guardare. Se la vista è il senso analitico per eccellenza, se aprire gli occhi significa dare inizio a un lavoro di definizione, di messa a fuoco, di determinazione di ciò che ci sta innanzi, l’udito, invece, è il senso tramite cui il nostro Io si fa da parte e lascia spazio all’Altro. Dare spazio all’udito significa integrare nella nostra intelligenza una dimensione di apertura a ciò che non è necessariamente definibile, limitabile, com-prensibile.
2. Tatto
Il senso del tatto è probabilmente il più sottosviluppato tra i cinque a nostra disposizione. Ma esso emerge in tutta la sua potenza nella dimensione dell’affettività. L’abbraccio, la carezza, il bacio, sono tutte esperienze tattili che possono comunicare molto e insegnarci molto. La conoscenza deve passare anche per l’esperienza affettiva ed emotiva che è, quasi sempre, un qualcosa di tattile. Anche la violenza passa spesso per un’espressione tattile: lo schiaffo, il pugno, la lotta corpo a corpo sono fenomeni che negano la parola e che impongono il predominio della fisicità tattile. Questi fenomeni devono essere educati, proprio come ci educhiamo a non guardare, lì dove non è conveniente o socialmente accettabile farlo.
3. Gusto
Quando nasciamo iniziamo a conoscere il mondo con la bocca prima ancora che con gli occhi. I neonati esprimono la loro volontà di conoscenza portando alla bocca il mondo. Questa tendenza, problematica per i genitori germofobici, è in realtà molto istruttiva. Credo che il funzionamento del gusto ci dia una lezione fondamentale: che la bontà o la malvagità di una qualsiasi qualcosa dipende dalla sua capacità di nutrirci e dal modo in cui la nostra interiorità reagisce ad essa.
Per assaporare qualcosa dobbiamo letteralmente lasciarlo entrare dentro di noi. Conoscere attraverso il gusto significa imparare che ciò che è altro da noi può nutrirci, trasformarci, diventare parte di ciò che siamo. Il gusto ci insegna il valore dell’esperienza incarnata e dell’assimilazione, ricordandoci che non tutto ciò che si comprende passa per l’analisi: alcune cose si comprendono solo lasciandole accadere dentro di noi.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscirte!
Siamo abituati a leggere i poemi epici, dimenticandoci, spesso, che nell’antica Grecia queste grandi narrazioni non venivano lette, ma ascoltate. Il senso della vista lasciava il posto al senso dell’udito. E credo che fare esperienza di questo ascolto, oggi, apra a un qualcosa di nuovo.
Da qualche mese sto usando Storytel e sto imparando molto sui diversi modi con i quali un libro può essere fruito. Inoltre ho potuto finalmente portare i libri con me anche lì dove finora mi era stato impossibile: quando guido da solo, ad esempio, trovo uno spazio ideale per ascoltare una storia! Su Storytel sono presenti anche i grandi poemi epici, raccontati da lettori professionisti capaci di trasmettere le sfumature del testo.
Vi vorrei invitare ad ascoltarli, immergendovi nei vostri sensi. Se non avete Storytel non c’è problema. Tramite questo link, infatti, avrete la possibilità di provare la piattaforma gratuitamente per un mese:
Buon ascolto!
La dissertazione è davvero molto interessante, però intervengo per dire che secondo me, alla ricerca di elementi che confermano la tesi, ce ne si perde altri d'indubbia importanza. Circoscrivo a Iliade e Odissea perché hanno catturato la mia immaginazione fin da ragazzino, e istintivamente mi hanno offerto numerosi contro-esempi. Soprattutto nell'Odissea, ma anche nell'Iliade, quanti sono i personaggi che vengono ingannati dalla vista? A cominciare dal famoso cavallo, riportato nell'Odissea, ma anche vittima dei travestimenti di Odisseo stesso, o anche nell'Iliade: penso a Ettore che uccide Patroclo convinto di aver ucciso invece Achille, o all'inganno di Afrodite che salva Paride dalla battaglia.
E come dimenticare la leggenda secondo cui lo stesso Omero sarebbe stato cieco, forse la prima a incarnare la saggezza proprio nella cecità?
Forse traccio qui io un parallelismo ma, lungi dall'oculocentrismo, le interazioni tra questi personaggi mi fanno invece risuonare il cliché contemporaneo (da film americani) del "non fidarti delle apparenze", incarnato in maniera esemplare dal buon Luke Skywalker che, su consiglio dei suoi maestri (rappresentati come saggissimi)... chiude gli occhi e spegne i computer!
Naturalmente tutto ciò ha la pretesa di aggiungere, non di negare a quanto riportato sopra. Del resto, le due cose possono coesistere
Bellissima riflessione Mr Radin! Penso tu abbia proprio ragione, la notra cultura e' molto oculocentrica e mi piace tantissimo la tua riflessione: penso che implichi che riflettendo su queste cose potremmo immaginare e provare la nostra percezione del mondo attraverso tutti i sensi che abbiamo. Io sono sorda e lavoro nel mondo della disabilita' e ho amici ciechi e con altre disabilità. Il mondo puo' essere diverso per noi, ma può essere anche un modo di apprezzare il mondo e la cultura in maniera diversa. Per esempio descrivere un'opera o un panorama a una persona cieca, per quanto soggettivo, puo' essere un momento poetico di vedere con gli occhi di un'altro e di condivisione profonda. Chi e' vedente potrebbe provare a usare le informazioni tattili in un museo (chiaramente non il Braille! ahhaah) sopratutto le riproduzioni di un'opera che ci aiutano a "vedere" un'opera con le nostre mani, che puo' essere molto bello e darci una prospettiva nuova. Io che purtroppo senza apparecchi acustici sento solo i bassi nella musica, amo talmente il suono del basso, e ho "contagiato" mia figlia da quando era piccola, adesso che e' musicista lo suona benissimo e quando vuole farmi un regalo suona un assolo tutto per me. Anche quando ci manca uno dei sensi, secondo me possiamo "prendere in prestito" quelli di un'altro e imparare qualcosa in piu' so di loro! :-) Con grande stima, MG