Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: un modo per pensare e salvarsi dal naufragio. Oggi vorrei parlare di ambiente e di alcuni rischi dell’ambientalismo contemporaneo.
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Quella lezione di Leopardi
Forse dovremmo tutti recuperare quella lezione di Giacomo Leopardi appresa e poi dimenticata tra i banchi di scuola, nel passato più o meno remoto della nostra fanciullezza.
In una delle sue più celebri Operette Morali, se ricordate, il poeta di Recanati intavola un immaginario dialogo tra un islandese e la personificazione della natura.
Durante il dialogo, la natura confessa al suo disperato interlocutore la sua totale indifferenza per le sorti umane. Dice la natura:
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Nel nichilismo leopardiano emerge un’importante verità, di cui spesso ci si scorda quando si finisce a parlare di ecologia: a meno che non si voglia assumere una qualche forma di creazionismo, è necessario ammettere che, in rapporto all’universo e alla totalità della natura, l’esistenza umana è un qualcosa di microscopico, e che il nostro destino, così come il destino delle altre specie viventi, è del tutto irrilevante all’interno del continuo e imperturbabile mutare del cosmo.
Da ciò consegue che quando, nel difendere la causa ambientalista, esclamiamo ad esempio che «dobbiamo salvare la natura!» o che «la natura è in pericolo!», o ancora che «la natura ci sta punendo!» stiamo proferendo delle falsità. La natura, infatti, non è in pericolo, né ha alcuna volontà punitiva nei nostri confronti.
Quand’anche la temperatura della nostra atmosfera aumentasse di cinque, dieci, trenta gradi, la Terra continuerebbe a girare indisturbata, e in essa continuerebbero ad esistere diverse forme di vita. Ma, di più, se anche la superficie del nostro piccolo pianeta si coprisse di nuovo per millenni di enormi oceani o di magma incandescente, la natura, con le sue leggi fisiche e le sue formule chimiche, continuerebbe a regnare; gli elementi continuerebbero a interagire tra loro e la forza di gravità farebbe ruotare questa massa di acqua o di fuoco attorno al sole ancora per molti secoli. E la natura, ancora, non sarebbe in pericolo.
Siamo noi, invece, ad essere in pericolo. Noi esseri umani, i nostri equilibri, e diverse altre specie animali o vegetali che per utilità, curiosità o compassione, riteniamo importanti per la nostra vita. Questa constatazione, che può apparire banale, è un punto di partenza fondamentale che dobbiamo tener ben presente se non vogliamo compromettere l’intera causa ecologista.
L’ambiente di chi?
Per evitare di ingarbugliarci nelle invisibili trappole del linguaggio, dovremmo allora cercare di sostituire la parola “natura” (categoria sovra-umana; espressione ontologica; forza leopardiana indifferente all’umano) con la parola “ambiente”, da cui non a caso deriva il termine “ambientalismo”.
Orbene, secondo il vocabolario Treccani, l’ambiente altro non è che lo «spazio che circonda una cosa o una persona e in cui questa si muove o vive». A differenza della natura, che basta a se stessa, l’ambiente è dunque sempre l’ambiente di un qualcuno o di un qualcosa. Non ha senso parlare di ambiente se non si specifica chi sia il vivente al centro di tale ambiente.
Ritengo che quando si parla di riscaldamento globale, di ecologismo, di cambiamento climatico, dovremmo sempre ricordare che ci stiamo riferendo a un ambiente che ha al suo centro l’essere umano. Per dirla con altre parole, dovremmo sempre ricordare che l’ambientalismo è un umanismo.
Questa prospettiva può essere difficile da digerire, perché siamo ormai abituati a considerare la parola antropocentrismo come la radice dei tanti problemi ambientali che oggi siamo chiamati a risolvere: è per il fatto che per molto tempo abbiamo guardato solo agli interessi della nostra specie che l’inquinamento è aumentato, che le emissioni di CO₂ sono cresciute, che la biodiversità è diminuita, e via dicendo.
Ma temo che in questa considerazione diffusa si nasconda una semplificazione: forse, infatti, il problema non è che abbiamo guardato ai nostri interessi ma, al contrario, che siamo stati troppo ciechi sui nostri interessi complessivi - che abbiamo considerato solo i nostri interessi immediati, senza considerare il nostro vantaggio sul lungo termine.
Non possiamo tuttavia non guardare al problema ambientale da una prospettiva umana, perché anche quegli interessi non immediatamente pratici, sono pur sempre interessi umani.
Come già detto, evitare che le temperature crescano troppo, che il livello dei mari si innalzi, che i ghiacciai si sciolgano, è un nostro interesse esistenziale, non l’interesse della natura di per sé. Ma l’orizzonte di senso non si ferma qui. Anche preservare la bellezza del creato è un nostro interesse estetico, e non invece l’interesse della natura di per sé; evitare l’estinzione di alcune determinate specie di animali è un nostro interesse morale, e non l’interesse della natura di per sé (e l’antropocentrismo qui è ben visibile nel fatto che ci dispiacciamo molto per alcuni animali, particolarmente interessanti o simpatici, e non per altri, più pericolosi o spiacevoli). La nostra esistenza, così come la bellezza che noi percepiamo o la moralità che avvertiamo nei nostri cuori sono modi con cui si attua la nostra umanità. Fatico a immaginare un qualsiasi interesse ambientale che non sia, in fondo in fondo, un interesse prettamente umano.
Utilizzo tuttavia la parola umanismo, anziché antropocentrismo, sia perché il senso del secondo termine è oramai compromesso, sia perché il primo mi sembra abbracciare meglio una prospettiva che va al di là dei soli scopi economici (che pure rivestono un’importanza di primo piano). Non intendo dire che l’essere umano sia, ontologicamente al centro del creato, ma che la nostra prospettiva sul mondo non può che mettere al centro i nostri interessi: non soltanto quelli utilitaristi, ma gli interessi della totalità della persona.
I nemici dell’umanismo
Riaffermare la centralità della persona umana, insomma, non significa consentire lo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, ma comprendere che proprio il fatto di prevenire quello sfruttamento (e i problemi a esso legati) è un interesse dell’uomo stesso, che può essere perseguito efficacemente solo mantenendo uno sguardo umano sul mondo.
Se invece, come purtroppo accade in molti circoli ambientalisti, allontaniamo la prospettiva antropocentrica, divinizzando la natura e considerandola come una dimensione pura e sacra che l’uomo deve evitare di contaminare con la sua azione, andiamo incontro a diversi rischi che mettono a repentaglio la nostra causa. Nella restante parte di questa newsletter vorrei accennare brevemente a tre di questi rischi.
1. Il mito dell’età dell’oro
Il primo rischio è quello di ricadere nel mito dell’età dell’oro: nell’idea, cioè, che sia esistito un passato, più o meno remoto, in cui l’essere umano viveva in completa sintonia con la natura, in cui non esisteva alcuna sorta di problema ambientale e in cui l’umanità si nutriva dei frutti della terra, in piena pace e armonia.
Questo è, appunto, un mito, che in diverse forme ha accompagnato l’intera storia dell’umanità. L’idea che «un tempo si vivesse meglio», che l’abitare in questo nostro presente sia una sfortuna, è un’idea comune a tutte le epoche, interessante da un punto di vista psicologico.
Ma è un’idea dannosa, perché ci impedisce di guardare con lucidità al passato e di accorgersi che, seppur i problemi di oggi siano diversi dai problemi di ieri, il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente è sempre stato conflittuale. Non è mai esistita, intendo dire, un’età in cui la “natura” non abbia dato all’uomo una serie di grattacapi a cui pensare. Ci sono state epoche, ad esempio, in cui procacciarsi le risorse per vivere era una sfida mortale; epoche durante le quali si moriva di freddo e di fame; ci sono state epoche in cui malattie e pestilenze decimavano ciclicamente la popolazione mondiale; epoche in cui una stagione di siccità poteva significare la rovina per intere comunità; secoli in cui l’ignoto, come gli oceani mai solcati o le foreste fitte e oscure, rappresentava un pericolo costante, e l’ambiente era qualcosa da conquistare, sottomettere, spesso distruggere per poterne trarre sicurezza e beneficio.
Queste sfide costanti, sono state superate affermando la dimensione umana, cioè mettendo a frutto quella qualità che rappresenta il proprium dell’homo sapiens: l’ingegno, appunto - la capacità di applicare l’intelligenza per superare quei problemi che non possono essere risolti con le zanne o con gli artigli. Abbiamo affrontato tutte queste sfide migliorando la tecnica dell’agricoltura, la tecnica medica, la tecnica ingegneristica, e via dicendo.
In quale modo vogliamo affrontare i problemi, assai gravi, che oggi contraddistinguono il nostro rapporto con l’ambiente?
2. La demonizzazione della tecnica
Se tuttavia la natura è un tutto divino e l’azione antropica rappresenta il male, allora la tecnica non è più uno strumento di salvezza, ma un male da denunciare. Ed è questa prospettiva che affligge una significativa porzione dell’ecologismo contemporaneo.
Secondo i fautori della decrescita felice non dovremmo aumentare il livello delle nostre tecnologie, non dovremmo progredire nella ricerca tecnologica e scientifica. L’idea stessa di progresso è aborrita in favore di un regresso che, in questo immaginario mitico, ci riporterebbe verso l’armonia.
In questo modo, però, rischiamo di cadere dalla padella a alla brace e di rinunciare all’unico vero strumento che ci può aiutare a superare il problema. Se gli odierni problemi ambientali possono essere risolti, dovranno essere risolti da nuove tecnologie energetiche, che ci permettano di produrre più energia limitando le emissioni; e da nuove soluzioni tecniche che ci possano aiutare a fronteggiare le difficoltà della siccità, degli eventi atmosferici avversi, del crollo della biodiversità.
Da un punto di vista filosofico, è ovvio pensare che interessi umani (esistenziali, economici, estetici e morali) possano essere perseguiti con strumenti umani. Ma se non riaffermiamo la centralità della prospettiva umana, rischiamo di cadere nella divinizzazione della natura e nella demonizzazione della tecnica. Forse i grafici qui sotto possono darci un’idea più concreta di cosa un regresso significherebbe.
3. L’appello alla natura
Più in generale, il rischio è quello di cadere nella fallacia di appello alla natura, di cui abbiamo più volte parlato nei miei canali. È un errore argomentativo che consiste nel ritenere che qualcosa sia migliore, più buono, più sano, semplicemente perché più “naturale”, cioè perché è stato ottenuto con un processo che non ha richiesto l’artificio dell’uomo.
Questa, tuttavia, è una pericolosa semplificazione, perché ci sono molte cose “naturali” che consideriamo indesiderabili (i funghi velenosi, le malattie, i terremoti…) e molte cose “artificiali” che sono imprescindibili (il sapone, le cure mediche, il riscaldamento domestico…).
Gli antichi greci raccontano che il titano Prometeo sfidò la prepotenza degli dei per donare agli uomini il fuoco: simbolo della tecnica e della capacità di domesticare la natura. Non lasciamo che il suo patimento sia trascorso invano!
Ti ringrazio in ogni caso per avermi letto fin qui. Se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscirte e di condividerla con i tuoi contatti!
Per chi vuole lasciare a casa i pregiudizi e riflettere sull’ambientalismo partendo da una prospettiva scientifica, consiglio questo libro di Giacomo Moro Mauretto (in arte Entropy for Life): Se pianto un albero posso mangiare una bistecca?. Conoscere la complessità è importante per non cadere nelle semplificazioni, e tra queste pagine si scoprono un sacco di cose interessanti!
Se vuoi sostenere il mio progetto di divulgazione puoi acquistarlo dalla mia vetrina Amazon: il prezzo per te rimarrà lo stesso ma una piccola percentuale mi verrà riconosciuta dalla piattaforma. Grazie e buona lettura!
L'articolo è MOLTO INTERESSANTE ED ESPLICATIVO anche per chi, come me, ha problemi di lettura perché affetta da ADHD
Grazie per averlo pubblicato!
Madre natura, in realtà madre non è, ma sola generatrice. Ps: Mi chiedo quanto tempo tu spenda per tutto quello che fai! Complimenti! Un caro saluto