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Moro era e bello e di gentile aspetto
Lo so che questo commento arriva in ritardo rispetto alla valanga di meme che hanno invaso i social a seguito della vicenda Mangione, la quale ci sembra già vecchia nonostante sia accaduta meno di due settimane fa. Cerco dunque di scusare il mio ritardo con due argomentazioni. La prima è che provo un misto di ammirazione e di diffidenza verso chi riesce a prendere immediatamente posizione su fatti così complessi e seri. Ammirazione perché io non ne sono capace, diffidenza perché, in fondo in fondo, ho il sospetto che nessuno ne sia capace e che i commenti a caldo tendano ad eludere pezzi importanti del puzzle; «l’anello che non tiene» come lo chiamava Montale, «il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità».
La seconda argomentazione è che personalmente sono rimasto turbato e infastidito dalla romanticizzazione con cui è stato presentato Mangione, come se fosse una sorta di Robin Hood, un paladino della giustizia con tutte le caratteristiche di un eroe hollywoodiano; insomma, il tipico personaggio che al cinema verrebbe interpretato da Timothée Chalamet o da un giovane Richard Gere.
I social hanno descritto il killer di Manhattan come un novello Manfredi: moro anziché biondo, ma comunque bello e di gentile aspetto. Un ragazzo elegante, intelligente e dotato, che ha sacrificato la propria vita pur di rivendicare un’idea di giustizia che non trova più spazio in una società fatta di sciacalli e di cinici lucratori.
Ma io, se dovessi pensare a un paragone tra di lui e un personaggio letterario, non penserei né al bandito di Nottingham, né all’ultimo re svevo. Penserei invece a Ras’kolnikov: l’antieroe dostoevskiano protagonista delle pagine di Delitto e Castigo.
La vicenda Mangione è così una vicenda dostoevskiana nella quale, però, tutti noi sembriamo aver dimenticato l’importante lezione del maestro russo.
Il superuomo nicciano
Chi è Ras’kolnikov? Credo che rispondere a questa domanda ci possa aiutare ad ampliare lo sguardo sull’identikit morale e psicologico del nostro assassino.
Fin dalle prime pagine di Delitto e Castigo, Ras’kolnikov ci viene presentato così: come un giovane intelligente e dotato; un razionalista convinto che il mondo sia un libro aperto e che le persone intellettualmente dotate possano leggere questo libro e migliorarne le storture sintattiche, gli errori ortografici o le frasi poco piacevoli, senza dover sottostare ai pregiudizi, alle convenzioni, ai tabù e ai galatei che la morale del gregge impone alle masse.
Egli si considera alla stregua di un oltreuomo nicciano, cioè di un individuo razionalmente superiore, capace di decostruire tutte le finzioni della società, di superare il tradizionale sistema dei valori per fondare da sé una propria etica, basata su un’idea più giusta di giustizia.
Ras’kolnikov è inoltre sicuro che, nel libro del mondo, di errori ce ne siano non pochi: egli è torturato interiormente dal vedere la madre e la sorella costrette a enormi sacrifici ed è esasperato dal constatare che, accanto a lui, esistano persone orribili che campano sulle disgrazie e sui sacrifici altrui.
Così, forte della propria superiorità morale, Ras’kolnikov decide di uccidere una di queste persone orribili - una vecchia usuraia; un personaggio disgustoso, malvagio, per il quale Dostoevskij non fa provare al lettore nessunissima pietà.
Dal punto di vista di uno strettissimo razionalismo, egli agisce con tutte le buone ragioni possibili: quella vecchia, sola e malvagia, non mancherà a nessuno, ma senza di lei il mondo sarà senz’altro un posto migliore.
Fatti i necessari distinguo, il parallelismo con Luigi Mangione mi sembra dunque evidente. Anch’egli ha agito da presunto oltreuomo, convinto di poter rivendicare, superando i limiti della legge, un’idea più giusta di giustizia; convinto di poter trasvalutare i valori tradizionali in nome di un razionalismo perfetto, di un materialismo storico privo di ogni sospiro universale; convinto che di fronte al cinismo e alle storture del sistema assicurativo americano, anche l’omicidio possa acquistare un sapore diverso, più ragionevole, più eroico.
E noi gli siamo andati dietro, dimenticando la lezione di Dostoevskij - dimenticando cioè che, nel romanzo, alla parte del delitto segue la parte molto più lunga, profonda e sconcertante, del castigo.
Un castigo tutto interiore
Non è un castigo giuridico, ma un castigo dell’anima quello che affligge Ras’kolnikov a seguito del delitto. Dopo l’uccisione dell’usuraia, infatti, in lui si spalanca una profondissima crisi interiore. Le certezze oltreomistiche si sgretolano di fronte alla sensazione irrazionale, impulsiva, sentimentale, eppure irreparabilmente vera che ora anch’egli è un assassino, un ingiusto, un dannato.
Certo, il giudizio sulla vittima non cambia (né nella mente del personaggio, né nella prospettiva del lettore): le storture del libro del mondo rimangono lì, piaghe dolorose e sanguinanti esattamente come prima. Ma tuttavia il delitto fa emergere in Ras’kolnikov una prospettiva etica che va al di là del calcolo meccanicista, che si situa in una dimensione più nascosta ma più alta dell’individuo. Una dimensione che insegna al protagonista (e a tutti noi) che i valori non sono soltanto il frutto di prospettive culturali e sociali, che in essi c’è un qualcosa che oltrepassa il singolo individuo e la situazione particolare, un sentimento morale che forse (per dirla con Kant) non potrà essere conosciuto dall’intelletto, costretto come esso è a pascolare tra le valli ell’esperienza, ma che guida la nostra vita sotto forma di idea universale.
La lezione (anche se forse lo chiamerei più “un ammonimento”) di Dostoevskij è tutta qui:
c’è un qualcosa, in ognuno di noi, che va al di là del puro calcolo intellettuale, del positivismo meccanicista, del materialismo sociale, della prospettiva culturale in cui siamo stati gettati. E se dimentichiamo questo qualcosa, se proviamo a scavalcarlo, forti di una presunta superiorità intellettuale, saranno guai seri per noi e per tutti.
Una società anti-dostoevskiana
Luigi Mangione potrebbe certamente non cadere nella stessa febbre morale in cui è caduto Ras’kolnikov. Questo tuttavia è un problema limitato. Il vero problema, invece, è quello di vivere in un’intera società che ha salvato il delitto, ma ha scordato il castigo. Un società anti-dostoevskiana in cui riteniamo che qualcuno possa svegliarsi un mattino e, forte del proprio superomismo, fare fuori il primo delinquente che trova a tiro - un mondo in cui le uniche colpe sono le colpe sociali e in cui non esistono imperativi esistenziali; un mondo in cui il bene del singolo individuo è sempre e comunque sacrificabile al bene della collettività.
Non sto dicendo che Brian Thomson fosse angelico filantropo e non sto cercando di difendere le iatture che sono evidenti nel sistema assicurativo della sanità americana. Ciò che provo a spiegare è che non dovremmo, in nome di questa ingiustizia sociale, tollerare e addirittura esaltare un’anarchia valoriale dove ognuno è libero di agire come ritiene più giusto: oltre ad essere la morte dello stato di diritto e un problema per la sicurezza pubblica, infatti, è anche una situazione che potrebbe facilmente ritorcercisi contro - che potrebbe aprire in noi la consapevolezza di non essere affatto esseri superiori, giusti autoproclamati, eroi mascherati al servizio del bene, ma soltanto (per usare un’altra locuzione dostoevskiana) creature del sottosuolo.
Voglio citare alcune parole prese dalla newsletter di Francesco Oggiano uscita la scorsa settimana:
Sono stato sommerso come voi da quella violenza verbale autolegittimata dei «giusti», che esaltavano un omicidio e linciavano un morto in nome di un loro malato senso di giustizia.
C’è solo una categoria peggiore dei cattivi
I cattivi convinti di essere buoni.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Non sono sicuro che durante le feste la newsletter uscirà regolarmente, ma ci rileggiamo sicuramente dopo il 7 gennaio.
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Ovviamente il testo suggerito quest’oggi non può che essere Delitto e Castigo. Un testo da leggere se non lo si ha mai letto e da rileggere e che, se volete sostenere il mio progetto di divulgazione, potete acquistare dalla mia vetrina di affiliazione Amazon.
Per presentarlo vi riporto un breve estratto di Paolo Nori. Credo che, nel suo dir poco, dica in realtà molto:
Ecco io, la prima reazione che ho avuto, quando ho capito di cosa parlava Dostoevskij in Delitto e castigo, quando Ras’kolnikov, il protagonista, si chiede “Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?”, ecco quella domanda, io quindicenne, me la sono rivolta anch’io: “Ma io” mi son chiesto “sono come un insetto o sono come Napoleone?”
E ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in meno, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora.
Grazie Eugenio per questo articolo illuminante. Hai azzeccato in pieno una verità fondamentale per l’umanità, ogni persona si deve confrontare con la propria possibilità di potenza e di vulnerabilità. Un confronto che probabilmente dura tutta la vita per molti.
Tocchi il tema dei social che amplificano le tendenze del “gruppo” del mob, un fenomeno pericolosissimo che accade quando in gruppo ci si fa prendere da impulsi emotivi o istintivi che spesso portano a qualcosa che ci sopraffà e porta alla realizzazione di atti che probabilmente non accadrebbero se ogni individuo del “branco” si confrontasse con la possibilità dell’atto in solitudine. Dal “hazing” al bullismo, dallo stupro da “gang” al linciaggio. E il “linciaggio” mediatico non è da meno con i partecipanti che danno sfogo a pensieri istintivi falsamente protetti dall’effimero “anonimato” del branco.
Questo fenomeno del bullismo sociale, trolling e “cancel culture” a me sta a cuore perché mi preoccupa molto. Lavoro nel campo delle pari opportunità e purtroppo per via della ignoranza e poca lungimiranza di molti, anche le cause più giuste possono portare a azioni molto gravi e sbagliate.
Per esempio, quando si parla di femminismo o parità di diritti tra i generi, purtroppo spesso chi ha sofferto e giustamente prova un fortissimo senso di rabbia per molte ingiustizie storiche e culturali (per esempio sul ruolo della donna nella cultura, nella società e nel lavoro) purtroppo arriva anche a un perverso senso di “giustizia” accusando un’intero genere maschile oppure saltando a conclusioni e giudizi affrettati e a puntare il dito senza avere tutti i fatti, rinforzati dal “gruppo”. Lo stesso esempio si potrebbe fare sul fenomeno degli “incels”.
Quello che vorrei chiederti Eugenio, é questo: quale sarebbe la tua opinione sulla responsabilità dei giornalisti e influencers dei media (soprattutto social) nell’ amplificare queste controversie e provocare con articoli che aizzano una mob contro un’altra? Che amplificano pensieri istintivi di pochi per aumentare i clicks, e a loro volta non si prendono alcuna responsabilità di moderare i discorsi e invitare alla riflessione, proprio come invece hai fatto tu, con questo bellissimo post.
Ho due figlie giovani che mi hanno parlato del fenomeno dí Mangione e della sua glorificazione mediatica e dell’attenzione sul suo aspetto e il suo atto omicida come se fosse un furtarello di Robin Hood. La cosa che mi rattrista è che a parte le conseguenze di questo omicidio per le famiglie di chi è coinvolto, purtroppo questo atto ha effettivamente portato alla riflessione sull’ingiustizia profonda del mondo assicurativo sanitario degli USA (che ho sperimentato di persona tra l’altro).
Nel contesto del suo privilegio e presunzione, forse Mangione è riuscito a essere Napoleone per un momento. Ma quando arriva il silenzio e la solitudine della condanna e della prigione chissà se riuscirà a sentirsi più di un insetto?
Caro Eugenio,
mi permetto di aggiungere un concetto che mi sembra poco evidente nel tuo intervento o che forse mi è parzialmente sfuggito.
Quando scrivi :”- un mondo in cui le uniche colpe sono le colpe sociali e in cui non esistono imperativi esistenziali;” penso si potrebbe altresì evidenziare il ruolo altrettanto negativo di chi svolge attività che sono dannose per l’umano, pur essendo perfettamente all’interno della legalità. Provo a spiegarmi con degli esempi: l’imprenditore che vende armi, il manager che si inchina al proprio stipendio sfruttando i lavoratori il politico che non si preoccupa delle fasce più deboli,o più in generale, chiunque usa il prossimo come mezzo e non come fine (tanto per stare in linea con Kant). Non basta perciò la legalità per sanare la morale che dovrebbe appartenere ad ogni uomo. Sennò l’unico davvero colpevole rimane il Mangione di turno.