Perché abbiamo paura di diventare adulti?
Il mito dell'eterna giovinezza e la paura dell'adultità
Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: un modo per pensare e salvarsi dal naufragio. Oggi parliamo della nostra paura di diventare adulti.
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Al giorno d’oggi, per molte persone, sembra non esserci peggior offesa che sentirsi rivolgere un formale “lei” in una conversazione. «Se qualcuno ci dà del lei» pensiamo, «significa che non ci ritiene abbastanza giovani da meritare il tu», e questa considerazione suscita in noi un senso di sgomento, di apprensione, di rigetto verso la consapevolezza della nostra adultità.
La prima parte della constatazione è corretta: se un ragazzino per strada ci dà del lei è perché non ci ritiene anagraficamente suoi pari, perché ci reputa più adulti e quindi meritevoli di una certa forma di rispetto che si esprime nell’utilizzo della terza persona. Ma perché tutto ciò ci imbarazza? Perché ci fingiamo stupiti («Ma che fai? Mi dai del lei?») o addirittura lo imploriamo di colmare le distanze («Va bene, ok, ma dammi dei tu!») Perché abbiamo così tanta paura di sentirci “grandi”?
Non mi rivolgo qui soltanto agli adulti più incanutiti, a coloro che hanno ormai superato da tempo il “mezzo del cammin di nostra vita” e per i quali questa paura assume, a parer mio, tratti seriamente patologici. Mi rivolgo anche ai miei coetanei: a trentenni, a venticinquenni che lavorano, vivono per conto proprio, hanno una vita da adulti, ma rifiutano di essere adulti, e ricercano la giovinezza perduta in forme (a tratti anch’esse patologiche) di svago, di edonismo, di gioco, di disimpegno relazionale.
Non siamo qui per fare l’apologia del lei: il linguaggio evolve e forse questa forma di deferenza (che, tra parentesi, è relativamente recente: nell’antica Roma, ad esempio, ci si dava tranquillamente del tu) è destinata a scomparire. Non dobbiamo farne un dramma. La questione non è la formalità linguistica ma questa nostra paura di invecchiare, di cui il generale appiattimento al tu è soltanto una delle manifestazioni. Altre sono, ad esempio, l’esplosione che la chirurgia estetica ha avuto negli ultimi decenni; l’ossessione per il fitness; la volontà, da parte di persone mature, di vestirsi alla moda dei giovani, di ascoltare la stessa musica dei propri figli, di usare le stesse tecnologie, lo stesso slang, con risultati che spesso oscillano tra il ridicolo e l’osceno.
Sono sintomi diversi di uno stesso tentativo di allontanare la propria adultità. Ed è questo tentativo che vorrei indagare, con l’aiuto della filosofia. Perché dovremmo allontanare la nostra adultità?
Gaudeamus igitur iuvenes dum sumus
Partiamo con il dire questo: il mito della giovinezza è sempre esistito. «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia!» scriveva Lorenzo il Magnifico già nel Quattrocento; in età moderna i goliardi universitari iniziavano il loro inno con queste parole: «Gaudeamus igitur iuvenes dum sumus» - godiamocela, dunque, fintanto che siamo giovani. Gli studenti di Torino rispondevano con un’altra cantilena: «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!». Un canto che poi finì per assumere tutt’altro significato, mescolandosi con le tragiche vicende del fascismo.
Se scaviamo nella nostra storia troviamo miriadi di racconti e di simboli che incarnano questa volontà di non invecchiare: dal mito di Ganimede alla pietra filosofale; dall’ambrosia al Santo Graal la gioventù è sempre stata desiderabile. Ma credo che il passato si distingua dall’oggi per alcune importanti caratteristiche.
Chi portava avanti la bandiera della giovinezza, un tempo, erano appunto i giovani. I goliardi che intonavano gli inni studenteschi, ad esempio, erano ragazzi che cercavano quella ribellione e quel protagonismo che sono tipici di ogni ragazzo, in ogni epoca e in ogni luogo. Ma i professori universitari si guardavano bene dal vestirsi o dal comportarsi come i propri studenti.
Quando l’elogio della giovinezza arrivava da persone mature non aveva a che fare con la giovinezza intesa come status, come atteggiamento. Della giovinezza si aveva nostalgia, perché essa rappresentava quelle qualità che sono oggettivamente più sviluppate in una certa età della vita: la bellezza, la prestanza fisica, la fertilità, la salute, l’innocenza, ecc.
Ma dal punto di vista del modo di pensare, della capacità di discernimento e di governo, della saggezza, dell’autonomia, l’ideale da seguire non era certo il giovane.
Certo, Alcibiade è bello, forte e desiderabile, ma è il vecchio Socrate colui che lo deve guidare verso la sapienza; la res publica romana ha sicuramente bisogno di giovani condottieri, ma le sue decisioni dipendono dal senato, cioè dall’assemblea dei senex, degli anziani; la figura del saggio nella mitologia classica e moderna è quasi sempre incarnata da un vecchio, dalla lunga barba bianca. Dio stesso, il massimo detentore della sapienza, è rappresentato come un vecchio.
Insomma, sebbene il mito della giovinezza non sia certo un’invenzione contemporanea, esso non ha mai compromesso (per lo meno non in modo così diffuso) l’accettazione della propria maturità. Se essere ragazzi era senz’altro più piacevole, essere adulti non era però il segno di un degrado morale. Cos’è cambiato, dunque?
La rivoluzione romantica
È in conseguenza alla rivoluzione romantica, che investì l’Europa sul finire del Settecento, che venne gettato il primo guanto in faccia alla vecchiaia. Prima ancora dei sentimenti esagerati, della natura sublime, del furore dei popoli e delle nazioni, il Romanticismo fu infatti una grande rivoluzione cognitiva - forse la più grande rivoluzione cognitiva dell’Occidente moderno. Se dovessi estrarre il succo dell’intero movimento romantico e condensarlo in un’unica frase, direi che esso è stato fondamentalmente questo:
la sostituzione di una concezione del rapporto uomo-mondo fondata sulla conoscenza, con una concezione del rapporto uomo-mondo fondata sulla volontà, sulla potenza, sulla forza creativa.
Mi rendo conto che la frase non è di immediata comprensione, quindi provo a esprimermi meglio (non potendo dilungarmi troppo, però, rimando chi volesse approfondire al suggerimento di fine newsletter).
Le grandi tradizioni di pensiero occidentali: dal platonismo, al cristianesimo, alla tradizione scientifica, sono tra di loro molto diverse, ma sono accomunate dalla convinzione secondo cui la realtà si fonda su una struttura oggettiva, profonda, universale (le idee platoniche, Dio, le leggi della fisica), che l’uomo, in quanto parte integrante di questa realtà, può conoscere. Che poi questa conoscenza derivi dalla logica, dalla fede, o dal metodo sperimentale, su questo le varie tradizioni si sono combattute, ma tutte ritenevano che questa conoscenza non fosse solo possibile, ma fondamentale.
L’essere umano, cioè, realizza sé stesso, raggiunge il proprio scopo, nel momento in cui conosce la realtà e si scopre parte di essa. Questa è la concezione del rapporto uomo-mondo (fondata appunto sulla conoscenza) che il romanticismo spazza via.
Per il romanticismo, infatti, l’essenza dell’uomo non sta nella sua capacità di conoscere, ma nella sua volontà, nell’illimitatezza del suo desiderare, nella possibilità di porsi degli scopi che non sempre sono in accordo con la natura. Ci accorgiamo di esistere non quando conosciamo le leggi fisiche che regolano il mondo, ma quando scopriamo che la nostra volontà è in combutta con quelle leggi, che non può essere regolata.
Da qui, da questo fondamentale nodo filosofico, derivano poi (e solo poi) tutte quelle conseguenze a cui solitamente pensiamo quando pensiamo al romanticismo: la natura intesa non più come armonia ma come potenza creatrice; il tormento dell’animo, che deriva proprio dallo scostamento tra volontà e realtà; l’arte come espressione del mio Io più profondo, ecc.
La trasformazione della vecchiaia
Ma il romanticismo porta con sé anche un’altra conseguenza. Il grande uomo, per i romantici, non è più lo studioso raffinato che conosce molte cose - non è più colui che se ne sta chino sui libri o colui che fissa il cielo in cerca di nuove stelle. Il grande uomo non è colui che sa, ma colui che fa, che agisce, che trasforma in atto la potenza della propria volontà. Non è colui che osserva la realtà, ma colui che la plasma secondo il proprio volere; colui che cerca di piegare la natura ai propri scopi, o che muore nel tentativo di riuscirci.
È in questo contesto che la vecchiaia diventa per la prima volta qualcosa di terribile, di meschino, da cui stare ben lontani.
Se il valore di un uomo si misura sull’azione, sulla potenza creatrice e generatrice, allora la perdita della giovinezza diventa un male in sé, perché rappresenta la perdita di questa potenza.
Il giovane infatti è forte, ama l’azione, è animato da sentimenti e desideri potenti. L’adulto, invece, smarrisce via via questa vitalità, opera all’interno di un sistema di valori dato e finito. Il suo valore risiede nella saggezza accumulata, nella conoscenza del mondo, del passato, nella stabilità sociale e nella pace interiore. Ma queste caratteristiche, per tutto ciò che abbiamo detto, perdono ogni valore alla capacità di godere e di agire tipica dei giovani.
L’adulto privato della conoscenza
I frutti del romanticismo arrivano fino ai giorni nostri, al di là delle semplificazioni scolastiche, ma non bastano da soli a spiegare la nostra paura. Credo che un ulteriore strappo con l’età adulta si consumi nei tumulti del Sessantotto. Uno strappo che rende ancora più temibile ai nostri occhi l’avanzare del tempo, perché finisce per privare l’adulto anche della sua conoscenza.
Le ribellioni giovanili che attraversano gli anni Settanta non furono, in primis, una rivolta contro gli adulti: furono una rivolta contro il sistema di valori borghese. Ma si trasformano in una rivolta contro gli adulti nel momento in cui identificarono la generazione dei padri con quel sistema borghese che intendevano combattere.
I giovani sessantottini crebbero con la volontà di combattere un sistema politico e sociale corrotto, ma, per proprietà transitiva, finirono per combattere l’adultità in tutte le sue emanazioni, anche in quelle che hanno poco a che vedere con la politica.
Credo che il Sessantotto abbia un ruolo chiave in quella trasformazione sociale che ha condotto, nei decenni successivi, dagli anni Ottanta ad oggi, al mito dell’eterna giovinezza. Rispetto al Romanticismo, infatti, qui si aggiunge un tassello:
l’adulto certo non incarna la forza creatrice, non rappresenta la forza d’azione, ma per i giovani rivoluzionari non è nemmeno sapiente, non è nemmeno capace di conoscere il mondo, perché quel mondo che pensava di conoscere si è rivelato un mondo falso, corrotto e ingiusto, che è necessario distruggere.
L’adulto è ora non solo colui che si oppone all’azione, ma colui che non capisce, che non sa, che non ha nulla da fornire al nuovo se non la drammatica immagine del tempo che avanza. Forse questo secondo strappo fu ancora peggiore del primo, perché mentre nel Romanticismo il conflitto rimase una conseguenza latente, nel Sessantotto la guerra generazionale fu dichiarata apertamente, non solo nelle piazze, ma anche nei cinema, nei libri, nelle canzoni. In uno dei suoi pezzi più celebri, Bob Dylan canta: «Venite madri e padri da tutto il paese, e non criticate ciò che non potete capire […] Fatevi da parte se non potete dare una mano, perché i tempi stanno cambiando».
L’adultità come scelta autentica
Non è mia intenzione, qui, fornire un giudizio politico sul Romanticismo e sul Sessantotto. Tuttavia, ritengo che questa crisi dell’adultità non sia un bene.
Oggi, infatti, ci troviamo di fronte a una sindrome di Peter Pan in cui molti adulti, che avevano giurato di non diventare come i propri genitori, hanno finito per diventare una caricatura dei propri figli. Questo è un problema per i figli, che non hanno un’alterità con la quale confrontarsi, ma è un problema anche per gli adulti stessi, che a forza di comportarsi come se fossero giovani, finiscono per dimenticare il valore del diventare adulti.
Cosa significa, allora, diventare adulti, e quale valore può avere ancora oggi l’adultità?
In primo luogo, credo che diventare adulti significhi affrontare con dignità l’avanzare del tempo o, per dirla in modo più filosofico, fare i conti con la propria finitezza. Il bambino, il ragazzo, conserva l’illusione di poter vivere per sempre, ma questa illusione, se prolungata, toglie valore al nostro tempo. L’essere umano, diceva Heidegger, è un essere-per-la-morte. L’espressione può sembrare drammatica, ma ciò che intendeva dire il padre dell’esistenzialismo è che è la consapevolezza della nostra mortalità a conferire significato alla vita stessa.
Vivere, diceva Platone, significa «imparare a morire», cioè diventare consapevoli della nostra vera dimensione. Non è certo un’apprendimento facile, ma è la prima sfida dell’adultità e rinunciarvi significa accontentarsi di sopravvivere, anziché di vivere.
Finché continueremo a fingerci giovani, a rifiutare l’invecchiamento del nostro corpo, ad allontanare l’età dai nostri costumi, dai nostri gusti, dai nostri comportamenti, a rigettare le responsabilità forzandoci di rimanere nell’Isola che non c’è, rinunceremo a una vita vissuta con pienezza, serena e conscia della propria limitatezza.
In secondo luogo, diventare adulti significa scegliere quale vita vivere e, di conseguenza, vivere una vita propria, autentica. Fare i conti con la propria limitatezza vuol dire infatti rendersi conto che tra tutte le strade che abbiamo innanzi dobbiamo scegliere quale intraprendere e fare di quella strada la nostra strada. Non è un passo semplice, perché ogni scelta porta con sé una serie di esclusioni, di possibili rimpianti - non è semplice perché una vera scelta richiede impegno, costanza, sacrificio… Ma fuggire da questa responsabilità significa non scegliere nulla, ossia vivere in un limbo di mezze opportunità, di mancate realizzazioni, in una finta giovinezza che condurrà presto alla noia o alla disperazione.
Diventare adulti significa dunque farsi carico di alcune delle sfide esistenziali e filosofiche più importanti della nostra vita: la consapevolezza del limite e il coraggio della scelta. Prolungare il più possibile la propria giovinezza significa vivere in una pericolosa illusione. Abbi dunque il coraggio di diventare adulto!
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Come promesso, lascio un consiglio per chi volesse approfondire la questione del romanticismo. Ho letto questo libro di Berlin proprio a inizio di questo mese e l’ho apprezzato moltissimo per la sua capacità di unire profondità di analisi e chiarezza della prosa: sono rimasto incollato alle pagine come se fosse un romanzo, l’ho finito in pochissimo giorni (cosa non banale per un saggio filosofico) e ho provato una naturale amicizia nei confronti dell’autore (che, mea culpa, non avevo mai letto).
Le radici del romanticismo analizza l’origine filosofica di questo movimento culturale, cercando di farne emergere il cuore, la questione centrale, al di là di ciò che solitamente viene studiato a scuola, in letteratura o in storia dell’arte.
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Bella lettura, complimenti!
Mi permetto di aggiungere una piccola riflessione, un paragone (da prendere con tutte le dovute pinze). Se il romanticismo ha iniziato questo percorso allontanando il mito della conoscenza per sostituirlo con quello della creatività, in qualche modo oggi facciamo lo stesso, allontanando il mito e l'ammirazione per la conoscenza (e l'età adulta) con quello dell'immediatezza, dell'apparenza, della superficialità ... e dell'ignoranza.
Complimenti, davvero una bella lettura!
Mi ha colpito soprattutto la parte in cui si definisce l'uomo romantico come colui che si ribella alla natura e con volontà cerca di piegarla al suo volere: da questo spunto penso che diventare adulti significhi invece vivere un rapporto di equilibrio con essa.