Buongiorno!
Io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio! Se ancora non lo fai, ti invito anche a seguirmi anche sui miei profili Instagram e TikTok. Puoi cercarmi come “white whale cafe”!
Ma bando alle ciance! Oggi vorrei iniziare analizzando un’immagine. Non un’immagine qualsiasi, bensì una foto che in queste settimane ha fatto il giro del mondo, finendo sui giornali e sui tabloid di moltissimi paesi. Questa:
È la foto segnaletica scattata dalla prigione di Atlanta a Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, arrestato con l’accusa di aver cercato di ribaltare i risultati elettorali del 2020 [al momento rilasciato su cauzione, in attesa di processo. ndr].
Non intendo occuparmi, in questa sede, della vicenda giudiziaria in sé, ma del modo in cui essa è stata comunicata dai media, dai vari attori in gioco e da Trump stesso, per mettere in luce un grande problema della comunicazione.
Un’immagine storica?
Viviamo in un’epoca in cui qualsiasi evento si trasforma da subito in un “fatto storico”: le pagine dei quotidiani sono piene di espressioni come: “giornata storica”; “scoperta storica”; “discorso storico”; “verdetto storico” e altre variazioni sul tema. Questa febbre si è manifestata anche in occasione del succitato arresto, come si può vedere, ad esempio, dal titolo dell’articolo Ansa (ma ci sarebbero altri esempi da citare).
Se effettivamente dovessimo credere a tutte queste previsioni, mi spiace per gli scolari del futuro: passare gli esami di storia si trasformerà in un’impresa titanica da campioni di memoria.
Ma non credo sia così. La sentenza - il giudizio di valore sugli eventi del presente, come già insegnava il buon Manzoni, spetta ai posteri. E anche Hegel, padre dello storicismo, parlava della sua filosofia come della Nottola di Minerva, che spicca il volo sul finire del crepuscolo. Fuor di metafora, ciò significa che la comprensione razionale dei fatti, avviene solo dopo il loro accadimento - talvolta un bel po’ dopo, quando è possibile misurarne le reali conseguenze, con il giusto distacco.
In ciò, già possiamo intravedere una parte del problema: i media e i giornali dovrebbero aiutarci a capire ciò che sta succedendo nel mondo, rimanendo il più possibile ancorati ai fatti e ai dati; dovrebbero guidare i lettori nella comprensione di questi dati e nella formazione di un giudizio fondato su basi il più possibile solide.
Tutto ciò, evidentemente, mantenendo un atteggiamento prudente verso il futuro e rinunciando a questa hybris storica dal sapore oracolare.
Da questa riflessione potremmo trarre una prima regola:
Quando, in un qualsiasi mezzo d’informazione, ci imbattiamo in questa tendenza storicizzante, a meno che non si stia parlando di Garibaldi e dei suoi Mille, dovremmo alzare le antenne.
Questa è solo una parte del problema… Ma ritorniamo alla nostra foto segnaletica.
Un Meme vale più di mille argomenti.
Come scrive Jason Pahram su Wired (consiglio l’intero articolo, anche se cade anch’esso nella tentazione dello storicismo): “Il medium con cui Trump comunica meglio, è quello delle immagini”. Ed è verissimo. L’immagine in questione ne è solo l’ultimo esempio, con il quale il Tycoon repubblicano ha saputo trasformare una vergogna in un vanto, un documento giudiziario in un vero e proprio manifesto elettorale.
Sopracciglia corrucciate; espressione arcigna; volto in ombra: non serve essere dei patiti di John Ford per accorgersi che la posa è studiata per essere un ritratto cinematografico! Se avesse potuto farsi fotografare in piano americano, con le mani che accarezzano la fondina e la scritta “Wanted”, son sicuro che l’avrebbe fatto, raggiungendo in toto l’effetto Jesse James.
In ogni caso, la foto è stata ripubblicata sui social dallo stesso Trump, con la didascalia “Never Surrender”: “Mai arrendersi”, a completare il tutto.
Viene da chiedersi: perché l’ex inquilino della Casa Bianca non ha paura di diffondere la prova del proprio arresto, un elemento che solleva una pesante ombra sulla propria credibilità politica? Beh, a parer mio una possibile risposta è questa:
Perché sa che quella foto verrà spogliata di ogni suo connotato giudiziario e trasformata in un meme. E che un meme è più forte di mille argomenti.
Un meme, riportando la definizione di Wikipedia, “è un elemento culturale che si propaga, per imitazione, da un individuo a un altro”.
Ripetiamolo: “un elemento culturale che si propaga”. E si propaga molto più velocemente e molto più profondamente di un comunicato ufficiale o di un discorso ben argomentato. Trump, insomma, sa che quell’immagine si trasformerà (per un tempo - specifichiamo - tutt’altro che “storico”) in un prodotto di consumo di massa, che diventerà virale, che farà parlare di lui, che gli farà bene. E infatti già si parla di milioni di dollari guadagnati dalla vendita di gadget relativi.
Ma un meme ha anche un altra proprietà, ancora più seria: la capacità di eludere il contesto e di riscrivere il proprio significato. Facciamo un esempio per capire cosa intendo. Guardate questo famosissimo caso:
Milioni e milioni di persone in tutto il mondo avranno visto questo fotogramma estrapolato dal suo ambito e utilizzato per creare migliaia di vignette diverse. In questo modo, il personaggio in esso ritratto finisce necessariamente per generare in noi una certa simpatia, dato anche il frequente accostamento con motti di spirito.
E nonostante Il Signore degli Anelli sia uno dei film più fortunati della storia del cinema, sono certo che l’insieme delle persone che sono incappate in questo meme sia molto più grande dell’insieme di persone che hanno visto la trilogia di Peter Jackson. Sono dunque sicuro che solo una piccola percentuale di quei milioni di persone sapranno riconoscere in questo volto Boromir, figlio di Denethor, uno dei personaggi più ambigui nati dalla penna di J.R.R. Tolkien.
E ancora meno ricorderanno che egli, proprio in questa scena, sta cercando di convincere il Re degli elfi a non distruggere l’anello del potere, rischiando di condannare l’intera Terra di Mezzo a un futuro di violenza e prevaricazione!
Scusate il momento nerd, ma, fatte le dovute sostituzioni, vi accorgerete di quanto questo concetto sia importante:
Quando una foto si trasforma in un meme, il contesto sparisce. Ci si dimentica dei fatti e si entra in un meccanismo mediatico in cui l’immagine conta molto più di ciò che essa originariamente significava.
Certo, in molti collegheranno il ritratto di Trump al processo giudiziario: i suoi detrattori continueranno a vedere in esso una prova di ineleggibilità e i suoi sostenitori lo accoglieranno come l’esempio di una resistenza coraggiosa verso istituzioni ingiuste e politicamente schierate.
Ma lo stesso ritratto, sotto forma di meme, di gadget, di prodotto mediatico, raggiungerà anche moltissime altre persone: gli indecisi, i disinteressati, gli astenuti, ecc. Qualcuno di loro rimarrà divertito, colpito, pungolato. Qualcuno empatizzerà con quell’espressione western e magari, alla prossima tornata elettorale, se ne ricorderà.
Attenzione: non sto dicendo che grazie a quella foto, Trump vincerà le elezioni.
Non voglio infatti cadere nella fallacia della brutta china. Questo è solo uno dei moltissimi elementi e dei moltissimi meccanismi che ogni giorni influenzano l’opinione pubblica; gli scenari possibili sono moltissimi, il puzzle è molto grande e, come abbiamo detto all’inizio, l’ardua sentenza spetta ai posteri.
Credo però che tutto ciò sia indicativo di una tendenza.
Tra informazione e spettacolo
Qualche giorno fa sono incappato in un reel che riportava un estratto di un’intervista a Steven Pinker. Nel breve video in questione il cognitivista canadese sosteneva che i media e i giornalisti stanno fallendo il loro compito, la loro missione professionale, che dovrebbe essere quella di informare le persone.
In effetti, spesso si ha la sensazione che i canali di informazione siano diventati canali di spettacolarizzazione. Ciò che più conta non sono i fatti, ma l’effetto wow, l’emotività, lo scandalo, le immagini in grado di catturare l’attenzione (e le visualizzazioni), le pulsioni e l’irrazionalità, la retorica. Lo stesso tentativo di ricercare ogni giorno un “fatto storico” fa parte di questa tendenza a ingigantire, a puntare sull’emozione. Una tendenza amplificata dai social e dal mondo online, ma non più limitata ai social e all’online.
Il leader repubblicano è un maestro nello sfruttare questo meccanismo in cui l’informazione si confonde con lo spettacolo (specifichiamo che non è l’unico a farlo e che il fenomeno non riguarda solo una certa parte politica).
Ci si limita ad affermare, di tanto in tanto, che è un grande comunicatore. Questo (stante ciò che abbiamo appena detto) è senz’altro vero, ma nel dirlo non rischiamo di accettare passivamente la situazione? Non rischiamo di ritenere che sia più corretto adattarsi a questa malattia mediatica, anziché cercare di curarla?
Sarebbe come se, di fronte a una carestia, scegliessimo di farci ridurre lo stomaco, anziché investire per rendere più produttivo il suolo.
Nella stessa intervista, Pinker afferma che, quando pone questo problema ai giornalisti, questi gli rispondono che la gente ama le narrazioni e lo spettacolo e che nessuno, invece, sopporta le statistiche e i grafici, ovvero i dati.
Eppure, prosegue, questo non è poi così vero: le pagine sportive sono zeppe di statistiche, che ogni giorno vengono lette con interesse da milioni di persone; le previsioni meteo sono colme di dati che i lettori trovano interessanti.
Forse, aggiungo io, è solo questione di insegnare l’importanza dei dati nella vita di tutti i giorni. È solo questione di far capire che con questi dati possiamo indirizzare i nostri sforzi verso azioni mirate ed efficaci, migliorare la nostra qualità di vita, affrontare le sfide del futuro con determinazione e ottimismo. È solo questione di fare uno sforzo razionale per contenere e ammaestrare la parte più irrazionale di noi stessi. E questa sì che sarebbe una storica inversione di rotta.
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Oggi non vi consiglio un libro, un film o un’opera musicale, ma uno tra i miei siti web preferiti, che ritengo essere un ottimo strumento da consultare per chi volesse invertire questa deriva mediatica e ritornare a fondare le proprie azioni sui dati e sui fatti.
Our World in Data è un progetto nato dall’Università di Oxford che mira a fornire dati, statistiche e studi scientifici sui principali problemi mondiali. Di tanto in tanto, impiegare una mezz’ora di tempo per studiarsi bene una pagina di questo sito è un grande regalo per sé stessi. Buona navigazione!
È un articolo molto interessante. Questa spettacolarizzazione si vede anche durante le telecronache sportive in cui la descrizione dell'evento ha, quasi, un'importanza superiore all'evento stesso. E, comunque, non dimentichiamoci che, più di vent'anni fa, salì al potere, in Italia, una persona che dell'immagine della spettacolarizzazione dell'informazione, ha fatto il proprio cavallo di battaglia.
Buongiorno! Come stai? Ho una domanda: è innegabile l'importanza dell'accesso ai dati e alle informazioni, tuttavia, da solo non è sufficiente. Il dato senza interpretazione non può dirci molto. Lo sport è un ottimo esempio: abbiamo tonnellate di dati sui giocatori fin dagli anni '30, ma non riusciamo ancora a definire chi sia stato il miglior giocatore del mondo e neppure chi abbia segnato il maggior numero di gol - che sembrerebbe essere un'informazione facile da misurare, ma c'è tutta una polemica su quali gol debbano essere conteggiati. Pelé è un ottimo esempio di questo, a seconda della fonte, ha tra i 700 e i 1200 gol in carriera. Di fronte a questo, come promuovere non solo l'accesso ai dati, ma anche discussioni interessanti su di essi? Dal mio punto di vista, è qui che risiede il più grande problema di Internet: abbiamo accesso a tutto, ma non abbiamo la capacità di capire cosa dicono questi dati.
Un abbraccio!
P.S. Mi scuso per la grammatica, l'italiano non è la mia lingua madre (in realtà, sono arrivato alla tua newsletter come una strategia per imparare la lingua e alla fine mi è piaciuto il contenuto, complimenti!).