Buongiorno!
Io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio! Oggi ci concediamo una riflessione, per arrivare filosoficamente più consapevoli alla fine dell’anno. 🎆
Il problema più vitale
Concordo con Jorge Luis Borges quando scrive che «il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica».
Quando si avvicina la fine dell’anno e si celebra questa utile convenzione che è la conta del tempo che passa, alle parole di Borges ci penso spesso.
Cosa significa, fuori dai calendari e dal ticchettio degli orologi, che il tempo passa? Cos’è il tempo? «Se nessuno me ne chiede» confessava Agostino da Ippona, «lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so». E poche righe dopo questa sapientissima ammissione di ignoranza, il santo-filosofo scrive un paragrafo che mi sembra centrale per inquadrare la questione:
In quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall'altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità.
E così, la domanda sul tempo porta inevitabilmente con sé il pensiero dell’eternità, che ne rappresenta allo stesso tempo il contraltare e l’archetipo.
Tutte le cose persistono
Forse sembra anacronistico (anche se prima di parlare di anacronia dovremmo metterci d’accordo su cosa intendiamo per Kronos, cioè per Tempo) discutere di eternità al giorno d’oggi: per il nostro senso comune contemporaneo essa non è che un concetto astratto, la cui sostanza è invece il tempo che trascorre, quello che ci fa perdere il treno se ci impieghiamo troppo tempo ad arrivare al binario! Ma questo non è del tutto vero: l’eternità, potremmo dire, ha cambiato veste, ma non è mai uscita dalla scena dei nostri pensieri.
Abbiamo detto che per la sensibilità contemporanea il tempo quotidiano è la vera realtà, mentre l’eternità è il concetto-limite, l’astrazione. Così non era per gli antichi, secondo cui è invece il tempo (illusorio) ad essere un’immagine mobile dell’eternità (si veda quanto dice Platone nel Timeo).
L’eternità platonica trova un grande amplificatore nell’opera del suo maggiore interprete tardoantico, il mistico Plotino, che nelle sue Enneadi scrive:
L’Intelligenza Divina abbraccia simultaneamente tutte le cose. Il passato sta nel suo presente, e così anche l’avvenire. Nulla trascorre in questo mondo, nel quale tutte le cose persistono, immote, nella felicità della loro condizione.
L’Intelligenza Divina di cui parla Plotino non va certo confusa con il Dio della tradizione ebraico-cristiana. Eppure, proprio in quei secoli, il propagarsi del messaggio evangelico prometteva proprio la resurrezione a vita eterna: un concetto di eternità, quello cristiano, che nel sempreverde battibecco tra bigottismo e ateismo rischia di banalizzarsi non poco, e che spalanca in verità le porte a profonde riflessioni teologiche e filosofiche.

In ogni caso, il concetto di eternità venne così strettamente legato al contesto cristiano che l’indebolimento delle istituzioni religiose, in epoca contemporanea, sembra comportare inevitabilmente anche un abbandono di questa vacua nozione.
Nuove forme dell’eterno
Ma sbaglieremmo a credere che la nostra epoca non abbia le sue forme di eternità. Già l’illuminismo, promotore della laicità e di una vita orientata alla praxis, tacitamente reintroduce dalla finestra il vecchio interrogativo agostiniano.
Kant, nella Critica della Ragion Pura, invita a guardare al tempo come a nulla di più che una struttura percettiva: una lente tramite cui osserviamo il mondo. Il tempo, insomma, non sarebbe nel mondo in sé, ma nel soggetto che lo conosce. Ed è allora evidente, per quanto Kant non lo affermi esplicitamente, che se la temporalità appartiene all’Io, al di fuori di questo Io ci debba essere qualcosa di più grande, un qualcosa che non è temporale, ma eterno.
Facciamo ora un salto di qualche secolo. Il 6 aprile 1922, alla Sociéte française de Philosophie di Parigi, Henri Bergson e Albert Einstein si trovarono per discutere del concetto di tempo. Se il primo aveva ripreso le intuizioni kantiane per elaborare una concezione filo-proustiana di un tempo inteso come durata, il secondo con le sue teorie fisiche aveva messo in profonda crisi il concetto classico di tempo: entrambi avevano fatto posto al dubbio che, proprio come sostenevano i platonici, fosse il tempo a rappresentare l’illusione, e non invece l’eternità.
Impossibile non citare poi, almeno di passaggio, l’opera di Emanuele Severino che con invidiabile persistenza ha cercato di dimostrare l’inganno del divenire e di affermare l’eternità di ogni istante.
Il ritorno di ogni cosa
Ma la più celebre tra le forme di eternità contemporanea ce la dona proprio il distruttore di ogni eterno: Friedrich Nietzsche, che dopo aver demolito con il martello della sua filosofia qualsiasi persistenza di universalità, propone qualcosa di simile nella sua teoria più celebre e allo stesso tempo più indecifrabile:
Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte […] e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te […]. L’eterna clessifra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta - e tu con essa, granello di polvere!
Sulla teoria dell’eterno ritorno molto è stato scritto e detto e forse è impossibile comprendere cosa avesse in mente l’autore de La Gaia Scienza quando scrisse questa celeberrima pagina. Ma al di là delle sue pretese di validità ontologica, l’idea nicciana chiama in causa una concezione circolare della temporalità che in momenti come questi si fa molto concreta.
Perché se da un lato è chiaro che il nuovo anno non sarà il ripetersi attimo per attimo di quello appena trascorso (a meno di non finire all’interno del film “Ricomincio da capo”), sappiamo benissimo che, per certi versi, la ruota ricomincerà presto a girare: una stagione alla volta, un mese alla volta, un giorno dopo l’altro, nel ripresentarsi della nostra routine quotidiana. E se quella routine rischia di diventare soffocante, di tediarti, di disgustarti - se la fine delle festività rischia di ripiombarti in una vita che ti sembra noiosa e sterile, allora ti auguro, per il 2024, di poter far tuo l’ammonimento di Nietzsche:
«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte”?» Forse, prosegue il filosofo tedesco, questa rivelazione «graverebbe sul tuo agire come il peso più grande!». Sì: graverebbe sul tuo agire! In fondo, l’eterno ritorno ci ricorda questo: che dobbiamo muovere il culo. Che dobbiamo agire come se ogni istante fosse eterno. Che dobbiamo prendere in mano la nostra vita e compiere quelle scelte che non ci farebbero pentire del loro continuo ripetersi.
Un giorno, forse, quando l’illusione del tempo rivelerà la sua vera natura, ci accorgeremo che l’eternità esiste e che aspettava proprio a un passo da noi. Ma fino ad allora, il futuro riposa nelle nostre mani!
Buon anno nuovo a tutti! Noi ci rileggiamo nel 2024: iscriviti per non perderti le prossime uscite.
Oggi non potevo che consigliare questo testo di Borges, da cui ho preso la citazione iniziale. È giusto specificare che il libro si compone di più saggi e solo il primo di essi riflette sulla tematica del tempo. Per il resto il pensatore sudamericano spazia dall’analisi della poesia islandese alle traduzioni de Le Mille e una notte, ma lo fa sempre con quel suo stile inconfondibile, coltissimo ma accessibile, capace di rendere affascinante qualsiasi argomento e di appassionare il lettore pagina dopo pagina!
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Nei meandri dell'antropologia, la ciclicità dell'eterno è viva e vegeta nelle comunità etniche fuori dal vecchio continente - in Sud America per esempio, i gruppi etnici come Aokn, Fueginos, Mapuche, Aymara o Quecha per indicarne solo alcuni, usano il solstizio di primavera e d'inverno come vere e proprie celebrazioni, simbolo dell'osmosi natura-essere umano che in questo oroboros/infinito convivo fin dalla notte dei tempi.