Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: uno strumento per pensare e per salvarsi dal naufragio. Oggi però voglio usare questo spazio per rielaborare una mia esperienza personale: l’incontro con i migranti della rotta balcanica.
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Incontrare gli alieni
Ci sono vite radicalmente diverse dalla nostra. Questo fatto può sembrare banale, ma quando ci ritroviamo a viverlo, a incontrare il volto dell’Altro faccia a faccia, l’esperienza può risultare traumatica.
Un po’ come se, tutto d’un tratto, uscissimo di casa e ci trovassimo di fronte un extraterrestre verdognolo che ci parla in una lingua sconosciuta.
Sembra un paragone esagerato ma, almeno dal punto di vista etimologico, non lo è: la parola alieno, infatti, deriva proprio dal latino alius: “altro”. Nell’antica Roma, millenni prima di E.T. e dell’area 51, l’alienus era esattamente questo: il barbaro, lo straniero, una persona con una vita radicalmente diversa, il cui incontro era sia un qualcosa di sacro, che richiedeva il rispetto delle regole della xenia, sia, allo stesso tempo, qualcosa di terribile e di potenzialmente mortale.
Degli alieni, intesi in questo senso antico, sentiamo parlare spesso nei notiziari e nei giornali e, dal centro del nostro Impero scricchiolante, li giudichiamo: qualcuno li giudica positivamente, qualcun altro negativamente e ognuno avrà le sue ragioni per farlo.
Eppure, l’incontro con l’alieno, nella sua radicale alterità, è qualcosa di diverso da questi giudizi. È qualcosa che va al di là di qualsiasi idea politica. Non è altro che l’esperienza sconcertante di una vita che non è assimilabile alla mia.
A Trieste
I primi giorni di Agosto sono stato a Trieste, dove ho fatto esperienza personale dell’incontro con gli alieni, ovvero con i migranti che, partendo dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Siria e da altri teatri di guerra, affrontano un cammino lungo anni, attraverso le rotte balcaniche, per entrare in Europa. Ho incontrato persone, ascoltato storie e visto i segni di vite completamente diverse dalla mia.
Specifico, per chi non mi conosce, che non ho mai avuto (e che non ho nemmeno ora) la vocazione dell’attivista. Per capirci: non ho mai partecipato a un corteo studentesco né a un comizio politico; non mi sono mai infilato in accese discussioni con i parenti al pranzo di Natale; i miei modelli culturali sono lontani da Gaber o da Zerocalcare; non ho mai indossato una kefiah né dei pantaloni harem e alla nouvelle vague ho sempre preferito i noir con Humphrey Bogart.
Quando sono partito per Trieste, dunque, non l’ho fatto con intenzioni partigiane, quanto piuttosto con spirito di Servizio - con il desiderio di mettere a disposizione il mio tempo per gli altri e con la curiosità di toccare con mano una realtà tanto vicina eppure tanto distante.
Ciò di cui sono stato testimone, lo ripeto, viene prima di ogni giudizio politico; è un’esperienza pre-politica, che riguarda anzitutto il rapporto umano con altre vite.
Io ne ho viste cose…
E le vite con cui ci si rapporta, in queste esperienze, sono per lo più vite spezzate. I migranti che arrivano dalla rotta balcanica (i pochi che riescono a superare quello che tra loro chiamano “Il Gioco”; un gioco terribilmente serio) sono ragazzi tra i 15 e i 25 anni. Per i vecchi è troppo difficoltoso, per le donne è troppo pericoloso. Hanno i piedi gonfi e piagati. Alcuni portano addosso i segni delle violenze della polizia di confine, che in alcuni Paesi frusta, picchia, spacca, frattura, uccide chi cerca di superare il nuovo livello del “gioco”. In Italia, perlomeno, questo non succede.
Distribuendo cibo e beni primari fino a tarda sera, si ha la possibilità di conoscere di persona queste vite: molti non vedono l’ora di raccontare la propria storia. E le storie che raccontano sono romanzi di grandissima intensità drammatica, solo che non sono romanzi di carta, ma di carne ed ossa.
Alcuni camminano da un paio d’anni, altri da cinque o più. Dalla loro partenza al loro si insinua una bolla temporale in cui il mondo, iperveloce, è cambiato. Non sono solo alieni, sono testimoni di un qualcosa che per noi è già passato, ma di cui portano i segni, di un qualcosa che ci costringono a riconsiderare come presente.
Certi sono partiti in piccoli gruppi da dieci, venti persone, ma il numero degli arrivi che conti è sempre molto minore. Ti mostrano le foto del viaggio: “Questo è morto lungo la strada”; “Questo è stato picchiato e rispedito indietro”; “Di lui non abbiamo più notizie”. Fai la conta dei volti e alla fine si arriva a poche facce magre, imbruttite dalla fatica, ma desiderose di ricominciare.
Ci sarebbero molte storie che potrei riportare - molte testimonianze commoventi. Ma sono convinto che in questo frangente le parole non sarebbero sufficienti. Ne sono convinto perché io stesso avevo letto di storie simili, ma l’esperienza dell’incontro ha rappresentato, anche per me, un indicibile che arriva prima delle parole (oltre che, come abbiamo detto, prima del giudizio politico).
Un po’ per formazione, un po’ per necessità, sento di dover rielaborare quanto ho vissuto con l’aiuto di ciò che mi è familiare, cioè con l’aiuto della filosofia.
Il volto dell’altro
Finché ero lì, ma soprattutto nei giorni seguenti (che sono stati, per certi versi, ancora più duri) mi sono tornati alla mente certi passaggi di Emmanuel Lévinas.
Seppure non lo si studi a scuola, Lévinas (che ha vissuto sulla sua pelle sia la condizione di immigrato sia la tragedia della Shoah) ha sviluppato una delle idee filosofiche più importanti e originali a proposito dell’incontro con l’Altro. E scrivo “Altro” con la A maiuscola, perché qui non stiamo parlando semplicemente di “un’altra persona”, ma di un’alterità molto più radicale, come dicevamo all’inizio: una vita che non è in alcun modo assimilabile alla mia.
Lévinas parla a lungo dell’incontro con questa alterità e, a suo parere, il modo migliore per farne esperienza (forse l’unico modo per farne esperienza) è quello di trovarsi di fronte a un volto.
Non incontriamo veramente l’Altro leggendone la storia su un libro, su un giornale o su un notiziario TV. Nemmeno leggendo questa newsletter potrete farvi un’idea autentica della mia esperienza. No, l’incontro con l’Altro avviene soltanto nel momento in cui ci si ritrova faccia a faccia con il suo volto.
Il volto è l'espressione della trascendenza e dell'umanità dell'Altro - quando lo incontriamo, il suo volto ci si presenta come qualcosa che non potremo mai possedere, ridurre o comprendere interamente.
Ecco, credo che quello che ho vissuto sia stato proprio questo: l’epifania di un volto, anzi di molti volti, impossibili da com-prendere, cioè impossibili da “fare miei”, impossibili da includere nella mia esperienza del mondo senza che questa esperienza ne uscisse scardinata.
Come spiegava Lévinas, il volto dell’Altro ci porta fuori da noi stessi, sfidando la nostra tendenza a pensare il mondo in termini di totalità e di possesso.
Ho ripetuto più volte che questa esperienza viene prima del giudizio di valore sul tema dell’immigrazione o su eventuali soluzioni politiche. Beh, sono stato felice di riscoprire, tornato a casa, che anche questa precedenza era chiara a Lévinas, secondo cui il volto è una presenza che ci chiama all’etica, ma che, appunto, precede qualsiasi giudizio o conoscenza.
Senti parlare quotidianamente di migrazione, di immigrati, di sbarchi, di rotte. Elabori un tuo pensiero, che ti sembra coerente, argomentato, giusto. E poi ti trovi di fronte al volto di quelle persone e l’esperienza che provi è qualcosa che precede questi pensieri, che risveglia un profondo senso di umanità.
Il dramma della politica
Il fatto che il giudizio politico sia un qualcosa di successivo, non toglie infatti che il volto dell’Altro porti con sé un implicito imperativo etico.
Esso ci impone il dovere di rispettare l'Altro come irriducibile e inassimilabile alla nostra volontà o conoscenza. Per attenermi al linguaggio lévinasiano: il volto ci mette in una posizione di responsabilità infinita nei confronti dell'Altro.
Cosa significa? Significa che rimanere indifferenti non è possibile. Che dopo una simile esperienza l’impulso, fortissimo, è quello di agire, di spendersi in servizio con ancora più energia, di dedicare il proprio tempo a quell’alterità. Ma in questo modo si corre il rischio, temo, di compiere una scelta politica radicale che divide i volti in volti amici e in volti nemici e che, dunque, cancella la meraviglia (intesa in senso antico di incanto e di terrore) di quell’incontro.
Per questo, credo, dovremmo essere cauti. Non dovremmo compiere l’errore di tramutare quell’imperativo etico in un frettoloso giudizio politico perché è proprio nella dimensione politica che si svolge il vero dramma. La politica, infatti, è composta di molteplici volti, con esigenze non sono sempre concordi.
E per quanto sia ragionevole pensare che alcune di queste esigenze siano dettate dall’opportunismo o da una qualche forma di razzismo, è ingenuo ritenere che non vi siano anche altre prospettive valide. Il pensiero di Lévinas deve mescolarsi a quello di altri pensatori: di Habermas, di Walzer, di Filkienkraut. Il volto dello straniero deve unirsi a quella dell’anziano, del cittadino, del poliziotto di confine.
La politica (intesa qui in senso istituzionale) ci chiede di zoomare indietro, di allontanarci dal volto del singolo e di comprendere la totalità di un fenomeno complesso, difficile, molto più grande di una singola storia. Un fenomeno che richiede scelte spesso pragmatiche, fredde, lucide, anche se questa freddezza non dovrebbe convertirsi in disumanità.
Sta in questo il vero dramma, il trade-off, il conflitto morale.
Che fare, quindi?
Come si sbroglia la matassa?
Purtroppo questo non ve lo so dire. Personalmente, immagino sia necessario (qualsiasi sia la nostra posizione in merito alla questione) fare uno sforzo dialogico - mettere insieme le prospettive. Evitare di rinchiudersi in un odio disumano o in un radicalismo che non tiene conto delle sfumature, delle esigenze dei cittadini e delle istituzioni.
Ciò che possiamo fare è leggere, scrivere, discutere… incontrarci. perché forse buona parte del problema deriva, ancora una volta, dalla mancanza di un confronto ragionato, di un dibattito argomentato, in cui le differenti idee sono messe insieme non per com-battersi, ma per di-battersi - per cercare, insieme, una nuova strada per un mondo in continua evoluzione.
Io, per conto mio, mi prometto di leggere, di studiare e, se ci riuscirò, di scrivere. A tutti voi consiglio di provare l’esperienza del volto e dell’ascolto dell’Altro. È un’esperienza scardinante, ed è proprio per questo che è preziosa.
Grazie per avermi letto fin qui, se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento al rientro dalle ferie. Ricordati anche, se già non l’hai fatto, di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscite!
Approcciarsi al pensiero di Lévinas non è affatto semplice: è infatti un pensatore molto complesso, sia nella sostanza sia nella forma. Ricordo ancora che la lettura di “Totalità e Infinito” è stata una delle sfide più grandi de mio triennio universitario.
Spulciando su YouTube sono riuscito però a trovare qualche buon video divulgativo, ma abbastanza strutturato. Ve ne lascio due: il primo è per un livello più base, il secondo è una conferenza di Silvano Petrosino, forse il massimo esperto di questo filosofo in italia.
Buon ascolto e buon proseguimento a tutti!
Ciao Eugenio,
trovo interessante quanto riporti.
Mi permetto solo di aggiungere alcune considerazioni, basate sulla mia esperienza che tuttora svolgo nell’ambito dell’immigrazione.
L altro è sempre altro, indipendentemente dal suo status di immigrato.
Non voglio con ciò sminuire la portata di sofferenza che la maggior parte di loro porta con sé’.
Credo però che anche Levinàs intendesse proprio questo: anche mia moglie e i miei figli sono altro e l incontro con il loro volto mi pone di fronte alla necessità di provare a far coesistere dei mondi così diversi fra di loro.
La seconda cosa è che vorrei aggiungere e’ la seguente: anche io sono altro per chiunque mi incontra, immigrato compreso.
Così come anche io ho un volto.
Arrivo al dunque.
La politica, penso di poterlo asserire, deve tenere in piedi le due istanze in quanto ognuno di noi incontro un altro e noi siamo altro per chi incontriamo.
Non so quale possa essere la soluzione, però, operando nell’inserimento lavorativo di molti immigrati, spesso mi accorgo che per loro non siamo altro, tantomeno un volto.
E qui si deve ancora ipotizzare in quale maniera si possa realmente agire, senza dimenticarci dell altro è del nostro essere altro.
Caro Eugenio,
Che bel lavoro che hai fatto con questa newsletter.
Finale tuttavia appena abbozzato. Mi spiego.
Tu parli giustamente di pre-politica. La politica divide, guarda alla collettività più che all' individuo etc.
Tutto giusto. Eppure l’esperienza pre-politica senza la politica è come un campo che non verrà arato, una regola che non verrà mai implementata. La tua esperienza pre-politica esige una scelta politica. Forse non esiste una sola scelta politica compatibile con il rispetto dell’Altro ma possiamo ben concordare che molte politiche le possiamo intanto tagliare fuori perché l’Altro non lo contemplano affatto.