Buongiorno!
Sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia, di argomentazione e di molte altre cose, come ad esempio del perché fare le vacanze faccia bene al nostro spirito. Cominciamo!
L’idea di questa newsletter mi è venuta finché mi trovavo qui, in una delle spiagge più belle della Sardegna meridionale:
Quella delle vacanze al mare è un’esperienza che moltissimi di noi fanno annualmente. Eppure c’è una domanda che nessuno sembra farsi mai, ma che fissando quella tavolozza azzurro-blu mi si è piantata nel cervello: ma perché ci piace il mare?
Forse a qualcuno la domanda potrà sembrare sciocca e la risposta potrà apparire scontata, ma è proprio per questo che mi è parsa interessante.
Che cos’è infatti la filosofia se non il bisogno di indagare ciò che apparentemente è scontato; se non il tentativo di mostrare ciò che, sotto al pelo dell’acqua, rimane aperto al dubbio e alla domanda?
Non solo una questione di vacanza
La risposta più immediata che ci verrebbe da dare è che il mare ci piace perché è il posto perfetto per una vacanza rilassante: gli adulti possono dimenticare ogni preoccupazione e godersi il riposo sotto ai raggi del sole, i bambini possono giocare con la sabbia e con le onde e tutti quanti, quando lo desiderano, possono rinfrescarsi con un bel bagno rigenerante.
Questa spiegazione però è il frutto di una mentalità specifica; di una tradizione culturale sviluppatasi nel corso dell’Ottocento tra le classi sociali più agiate e divenuta un’abitudine di massa solo verso la metà dello scorso secolo.
Ma se avessimo invitato qualche feudatario medievale a passare un paio di settimane con i piedi in ammollo in una località balneare, probabilmente ci avrebbe assunti come giullari di corte.
Per millenni, infatti, il mare è stato sinonimo di naufragi e di terrore: un grande abisso inesplorato, abitato da creature spaventose e dal quale era meglio tenersi lontani il più possibile. Un ambiente talmente poco amichevole che San Giovanni, nella sua famosa “Apocalisse”, utilizza proprio il mare come simbolo per descrivere la forza ostile a Dio.
La rivalutazione della spiaggia avviene soltanto a partire dal XIX secolo per motivi diversi. Un ruolo di primo piano lo giocò senz’altro la civiltà romantica e la riscoperta del fascino della natura selvaggia (per chi volesse approfondire, lascio qui un interessante spunto). Alla cultura romantica si affiancò inoltre la scienza medica, che iniziò a vedere nell’aria pura delle zone marittime un toccasana contro le malattie causate dall’aria, sempre più inquinata, delle città.
Ma non dovete pensare che nell’Ottocento si andasse a prendere la tintarella in costume. Se avete visto il film “Morte a Venezia” o qualche altra opera analoga, avrete ben presente qual era lo stile dei bagnanti del tempo:
Ecco… Altro che crema abbronzante e occhiali da sole!
Alla luce di ciò, la risposta alla mia domanda sembra nuovamente un’ovvietà:
Il fascino che il mare esercita su di noi è dovuto esclusivamente a ragioni culturali - al modo in cui è evoluta la nostra società; a un’insieme di tradizioni e di costumi sviluppatisi negli ultimi secoli.
È una risposta che potremmo definire relativista: stando a questa spiegazione la bellezza del mare non avrebbe nulla di oggettivo, come dimostra il fatto che, per secoli, la sua presenza è stata associata a sentimenti negativi.
Eppure, non credo che questo pensiero sia del tutto ragionevole. Infatti, se è vero che negli anni il nostro parere è mutato, è altrettanto vero che nessuna civiltà è mai stata indifferente all’infinito che si dispiega davanti ai nostri occhi quando scrutiamo l’oceano.
A prescindere, insomma, dalla positività o meno del giudizio, è impossibile non riconoscere il fascino sempiterno che in ogni epoca il mare ha risvegliato nell’immaginazione dell’essere umano: si pensi al racconto dell’Odissea, ai numerosissimi riferimenti marini contenuti nei testi sacri, alle stesse invenzioni fantasiose su mostri abissali o creature mitiche; alle Sirene; al Leviatano o alla bellissima Venere, nata dalla spuma delle onde.
Ci dev’essere dunque qualcosa di più profondo, di più universale, che riguarda ognuno di noi e che colpisce il nostro animo quando, irti sulla prua di una nave o comodamente seduti sulla battigia, ammiriamo l’orizzonte.
Un aiuto filosofico
Ma che cos’è questo “di più”? Sono molti i filosofi che si sono interrogati su come i grandi paesaggi naturali agiscano sul nostro spirito e sulla nostra facoltà di giudizio e uno dei più grandi a farlo fu senz’altro Immanuel Kant.
Oggi il pensiero del padre dell’Illuminismo andrebbe misurato con le più recenti scoperte neuroscientifiche, il che porterebbe probabilmente a un rimodernamento delle sue tesi.
In ogni caso, credo che molte delle intuizioni kantiane, nella loro intima essenza, rimangano ancora oggi un valido sostegno alle nostre riflessioni. E credo che, se vogliamo rispondere con profondità alla nostro domanda, non possiamo prescindere dalla teoria del Sublime, elaborata proprio da Kant all’interno della Critica della Facoltà di Giudizio.
Sensibilità, Intelletto, Ragione.
Se non siete pratici di filosofia, cercherò di riassumere, in modo molto semplice l’argomento.
Premessa: per il filosofo di Königsberg l’essere umano è dotato di diverse facoltà mentali, tramite le quali conosce il mondo, formula pensieri e si rapporta con gli altri. Sintetizzando, per Kant l’uomo è dotato di:
Sensibilità: ovvero la facoltà tramite cui percepiamo i fenomeni (vista, udito, olfatto, tatto, ecc.). Tramite la sensibilità incontriamo la realtà, che si presenta però, in questa fase, come materiale grezzo, non ancora decodificato; non ancora concettualizzato. La sensibilità percepisce una forma lunga e sottile, affilata, lucente e con un certo peso, ma non è in grado di dire che si tratta di una spada, perché il concetto di “spada” non appartiene ai sensi, ma all’Intelletto.
Intelletto: Potete immaginare l’Intelletto kantiano, fondamentalmente, come una grande fabbrica. In questa fabbrica la materia prima (cioè il materiale che arriva dai sensi) viene lavorata tramite alcuni macchinari mentali (le cosiddette “categorie trascendentali a priori”) e trasformata in prodotto finito: ovvero, in concetti.
L’intelletto non solo riconosce che quell’oggetto affilato corrisponde al concetto di “spada”, ma è anche in grado di creare sempre nuovi concetti e di associarli tra loro dando vita a ragionamenti, argomentazioni e pensieri. L’intelletto, dunque, è ciò che rende possibile l’ingegneria, la medicina e in generale tutta la conoscenza scientifica.Ragione: La Ragione è per Kant la più alta tra le facoltà, quasi un tempio sacro all’interno dell’essere umano, in grado di elevarci al di sopra della realtà fenomenica. La Ragione è importante soprattutto perché è la sede del sentimento morale, grazie al quale possiamo intuire, ad esempio, che una spada non va utilizzata per uccidere un innocente.
Specifica fondamentale: mentre la sensibilità e l’intelletto sono limitati, perché appartengono al singolo individuo e sono relegati al mondo sensibile, la Ragione è invece un qualcosa di universale e di infinito, che non appartiene al singolo, ma a cui ogni persona, nella propria individualità, partecipa (tenetelo a mente!).
Oltre il limite del finito
Ora, per capire cosa proviamo quando ammiriamo un grande paesaggio naturale, dobbiamo prima capire cosa succede, secondo Kant, quando giudichiamo un qualsiasi oggetto estetico, come l’architettura palladiana qui sotto.
Secondo Kant, quando formuliamo un giudizio come: “Questo palazzo è molto bello” all’interno della nostra mente succede questo: il materiale raccolto dalla Sensibilità (la forma dell’architettura, l’illuminazione, ecc.) viene elaborato dai macchinari dell’Intelletto secondo alcune categorie (come ad esempio quella di armonia), che ci permettono di dire che “sì, quel palazzo in effetti è proprio bello!”. Sensibilità e Intelletto lavorano dunque in simbiosi per formulare un giudizio di bellezza.
Ma quando ci troviamo sul limitare dell’oceano e guardiamo l’orizzonte che si estende innanzi a noi; quando contempliamo l’immensità di un cielo stellato; quando ci troviamo di fronte a un’imponente catena montuosa o, più in generale, quando siamo davanti a un qualcosa di sconfinato, ad una grandiosità incommensurabile, allora le cose cambiano.
All’interno della nostra mente, infatti, succede qualcosa di molto particolare:
La fabbrica dell’Intelletto, che come abbiamo detto è limitata, non riesce a elaborare quella mole infinita di materiale, non riesce a contenere quell’immensità e a concettualizzarla, ed è costretta a chiedere aiuto agli alleati - a bussare alla porta della sola facoltà in grado di abbracciare quell’infinito.
Di fronte alla grandezza di certi panorami, l’Intelletto è incapace di lavorare in autonomia e risveglia così la facoltà dell’incondizionato, ovvero la Ragione, che desta in noi il sentimento del Sublime.
La Ragione infatti, intervenendo nella comprensione di quella vastità, instilla nel nostro animo una sensazione che va ben al di là dell’armoniosità e dell’eleganza tipiche del Bello, ma che ci scuote nel profondo, risvegliando un senso di infinità, di universalità; spingendoci al di là del mondo fenomenico e portandoci a toccare la libertà dell’incondizionato.
Ma perché ci piace il mare?
Dopo questo excursus, che spero non sia stato eccessivamente complicato, torniamo dunque alla domanda iniziale: per quale ragione il mare continua a risvegliare nell’uomo un fascino inspiegabile, che talvolta ha preso la forma del terrore inesplorato e altre volte quello della contemplazione estatica?
Non tanto per la comodità delle sue spiagge; né soltanto per una ragione sociale. Se indaghiamo con gli strumenti della filosofia ci accorgiamo infatti che quando, sotto i caldi raggi del sole, ci perdiamo a contemplare quella distesa turchese che si apre davanti ai nostri occhi, stimolando la nostra immaginazione e la nostra fantasia, stiamo risvegliando la parte più alta del nostro animo; stiamo facendo reale esperienza della nostra infinità.
«[…] Così, tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.»
Grazie per avermi letto fino a qui! Non dimenticarti di lasciare un commento e di consigliare la mia newsletter ai tuoi amici. Noi ci rileggiamo tra due settimane: iscriviti per non perderti la prossima uscita. 👋
Visto che abbiamo parlato di mare, oggi vi consiglio uno dei racconti marinari più belli che io abbia letto: “Billy Budd”, del grande Herman Melville.
Di Melville tutti conoscono “Moby Dick”, ma questo breve romanzo, pubblicato postumo, è una perla rara. L’autore mescola la tragedia Shakespeariana alla parabola biblica e costruisce, in un certo senso, un contraltare alla sua opera maggiore. Se infatti Ahab rappresentava la prometeica e luciferina sfida nei confronti di Dio, Billy è l’incarnazione della purezza del Bene, che non trova spazio in un mondo dominato dalla perfidia.
Buona lettura e a presto!
Davvero interessante , complimenti
Grazie. Dai modo di riflettere. E riflettere oggi è un privilegio (se accolto).