Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: un modo per pensare e salvarsi dal naufragio. Oggi vorrei parlarvi di empatia, razionalità e irrazionalità.
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Piazzale Loreto
Vorrei parlarvi, quest’oggi, di Omar Farang Zin: il motociclista che la scorsa settimana è stato ucciso da un’orsa in Romania. O, per meglio dire, vorrei parlarvi delle disumane reazioni che tale evento ha suscitato sui social. Per farlo, però parto da lontano.
Il 10 agosto 1944, in Piazzale Loreto vengono esposti i cadaveri di 15 partigiani fucilati dai fascisti. Nella guerra civile che attraversò l’Italia dal ‘43 al ‘45, fatti come questo sono all’ordine del giorno, ma quel 10 agosto succede qualcosa di straordinario. Tra la folla radunata in Piazzale Loreto si trova infatti un giovane diacono di Milano, tale Giovanni Barbareschi (abbiamo già accennato a lui in questa newsletter). Nessuno sa che quel ragazzo in talare nera è uno dei membri dell’O.S.C.A.R. (Organizzazione per il Soccorso, il Collocamento e l’Assistenza dei Ricercati). Vale a dire: nessuno sa che è lui stesso un partigiano.
Di fronte a quei corpi oltraggiati, Giovanni sente il profondo dovere di benedire le salme: cosa che non sarebbe affatto conveniente di fronte alle autorità fasciste che pattugliano la zona. Ma la spinta morale del diacono è tanto forte da fargli superare le barriere delle camicie nere: così si inginocchia davanti a quei morti e, ignaro di quella che potrebbe essere la reazione della folla, li benedice.
Quando si alza e guarda la piazza dietro a sé, s’accorge che tutti sono in ginocchio, a pregare con lui. La pietà umana è stata capace di andare al di là delle più feroci divisioni politiche, anche se solo per pochi istanti.
Ma c’è un fatto ancora più scandaloso. Nei mesi successivi Giovanni, che nel frattempo è stato ordinato sacerdote, conosce in prima persona le violenze dei fascisti: viene prima torturato nel carcere di San Vittore, poi deportato nel campo di concentramento di Bolzano. Riuscirà a fuggire e a proseguire la sua opera di salvataggio dei ricercati fino alla fine della guerra (l’O.S.C.A.R. ne salverà in totale più di duemila, scortandoli in Svizzera attraverso la Val Codera).
Il 29 aprile dal 1945, come è noto, il cadavere di Benito Mussolini e quelli di altri fascisti uccisi a Dongo vengono esposti proprio in piazzale Loreto (il luogo è scelto in ricordo della strage del ‘44). Don Giovanni Barbareschi è di nuovo lì. Di fronte non ha più dei compagni di lotta, ma i suoi nemici giurati — criminali di guerra che avevano massacrato amici, familiari… che avevano torturato lui stesso e che erano stati responsabili di enormi sofferenze inflitte a migliaia di persone per decenni. Potrebbe ingiuriare sui corpi e passare oltre. Potrebbe sputare a terra. Potrebbe esultare. Invece, di fronte a quei morti, prova di nuovo un irreprimibile senso di pietà, quasi scandaloso. Così, come aveva fatto otto mesi prima, si inginocchia, chiude gli occhi e benedice le salme.
Il messaggio è chiaro: se non vogliamo che la violenza e l’intolleranza trionfino fino in fondo, è necessario opporre ad esse la nostra umanità. È uno sforzo enorme, quasi disumano, perché la più grande difficoltà della guerra non sta nell’ottenere la vittoria politica, ma nel trovare il coraggio della riconciliazione personale con l’aspetto più umano della Persona.
La mancanza di pietà
Quella di Omar Farang Zin è una storia ben diversa. Il suo protagonista non era certo un gerarca fascista, né un assassino o un qualche tipo di criminale. Semplicemente un uomo responsabile soltanto d’aver commesso un gesto d’irrazionalità e di avventatezza. Tutti sanno, infatti, che infastidire un’orsa circondata dai suoi cuccioli non è un atteggiamento saggio e che la natura è molto più feroce di quanto non traspaia dai film di Walt Disney. Solo che l’irrazionalità, nel caso di Zin, si è trasformata in una riprovevole colpa. E c’è qualcosa di abominevole nel modo in cui si è reagito a questa colpa.
Se guardiamo sui social del Corriere della Sera, il post che riporta la tragedia è seguito da una serie infinita di commenti traboccanti odio. Solo per riportarne qualcuno: «Uno in meno, mi dispiace solo per l’orsa»; «Una specie da eliminare. Noi, non gli orsi»; «Che vada all’inferno»; e via dicendo.
Di fronte a certi commenti rimango impietrito. Com’è possibile tanto astio, com’è possibile una tale mancanza di empatia nei confronti di una persona rimasta uccisa, la cui unica colpa è stata quella dell’irragionevolezza?
Mi torna in mente un recente Caffè di Gramellini nel quale il giornalista commenta la notizia di un’altra vittima dell’irrazionalità: un uomo di Taranto morto in mare dopo essere uscito in barca nonostante il maltempo. Scrive Gramellini a proposito dei commentatori social:
La parola cretino viene qui usata in senso lato, per indicare chi ha atrofizzato i circuiti che collegano il cervello al cuore […]. Una marea di persone che invece di riempire il senso delle loro esistenze con qualche provvidenziale minuto di silenzio, commentano la tragedia con l’assertività dei lupi di mare e la sensibilità di un branco di rinoceronti in tutù.
C’è in effetti, di fronte a queste notizie, una profonda insensibilità non solo nei confronti della vittima, ma anche nei confronti dei suoi parenti, amici, conoscenti, che irrimediabilmente leggeranno quelle sentenze. Come si spiega tutto ciò?
Al di là dell’evidente imbecillità di certi tipi umani, vorrei tentare un’altra analisi.
L’odio verso l’irrazionale
la mia idea è riassumibile in questa formula:
Noi esseri umani fatichiamo così tanto ad accettare la nostra componente irrazionale, da cadere facilmente nell’ideale di un iper-razionalismo del tutto irragionevole.
Freudianamente potremmo dirla in questo modo: l’irrazionale ci spaventa così tanto, che tentiamo costantemente di rimuoverlo dalle nostre vite e di illuderci di essere creature perfettamente logiche e metodiche. Per questo, quando ritroviamo l’irrazionale nei gesti di un nostro simile, preferiamo additarlo di imbecillità, di stupidità; preferiamo pensare che sia un sub-umano, il rappresentante di un ramo fallimentare dell’evoluzione misteriosamente sopravvissuto alla selezione darwiniana.
Preferiamo dire tutto queste sciocchezze, piuttosto che ri-ammettere l’irrazionalità come parte di noi. Questo è un grave errore di valutazione — è cioè, come ho detto, un iper-razionalismo che finisce per essere del tutto irragionevole.
Un animale dotato di ragione
In un suo recente video, Roberto Mercadini rifletteva sul tema dell’irrazionalità umana, citando Aristotele. Com’è noto, lo Stagirita scrive nella sua Politica che l’uomo è «zoòn lògon èchon», espressione che solitamente viene tradotta con «animale razionale». Nella traduzione c’è tuttavia una piccola grande imprecisione. «Zoòn lògon èchon», letteralmente, significa infatti: animale dotato di ragione, e non animale razionale!
La distanza è la stessa che c’è tra il dire che l’uomo è un animale dotato di istinto e il dire che è un animale istintivo; tra il dire che l’uomo è dotato di sogni e il dire che è una creatura onirica; tra il dire che l’uomo è capace di nuotare e il dire che è un animale acquatico.
Essere dotati di qualcosa implica la possibilità di farne uso, non la sua attivazione continua o automatica. Dire che l’uomo è un "animale dotato di ragione" lascia aperta la possibilità – anzi, l’evidenza – che possa talvolta essere incapace di usarla, o che possa usarla male e che questo non lo renda meno umano.
Certo, chi segue i miei profili sa che sono concorde con Aristotele nel dire che, in un certo senso, la razionalità è la facoltà che più di ogni altra ci rende umani — che è coltivando la nostra razionalità che possiamo migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda e che questa luce che risplende dentro di noi, per quanto non sia in grado di illuminare tutto il buio della notte, può comunque essere un grosso aiuto per illuminarci la strada sotto ai piedi.
Ma questo non significa dire che tutto ciò che è irrazionale è inumano. Né significa dimenticarsi che, nonostante quella luce, il buio permane. Che ognuno di noi è dotato di ragione, ma che nessuno è soltanto un animale razionale.
La storia ci ha insegnato più volte che l’iper-razionalizzazione della società porta al totalitarismo; che applicare in modo intransigente i principi della ragione è tipico di Robespierre più che degli illuministi; che condannare ogni comportamento che si allontana dalla “retta via” è caratteristico dei radicalismi.
Riconciliarci con l’irrazionale
[Se vuoi, questa è la soundtrack giusta da mettere come sottofondo per il resto dell’articolo]
Al contrario, dovremmo ammettere che tutti noi, qualche volta nella vita, ci siamo avvicinati avventatamente a un’orsa. Forse la nostra orsa non aveva l’aspetto di un’orsa. Magari assomigliava più a una foto scattata sul bordo di un precipizio; a un’escursione in montagna durante il maltempo; a un fuoripista con gli sci; a un tuffo notturno in mare con qualche birra in corpo; a una corsa a tutta velocità su una strada panoramica…
Ognuno di noi ha vissuto e vive momenti di profonda irrazionalità, ma questi momenti fanno parte della nostra umanità. Possono essere controllati, ma sentiamo che eliminandoli completamente elimineremmo una parte importante di noi. Siamo pronti ad affermare che una persona che non ha mai fatto una follia per amore, che non si è mai ubriacata con gli amici, che non si è mai abbandonata all’istinto, che ha vissuto ogni suo giorno in un calcolatissimo e preciso grigiore, non ha mai pienamente vissuto.
La società di Aristotele sfogava l’irrazionale nella violenza della guerra, nei riti orgiastici in onore di Dioniso e nei simposi gonfi di vino. Noi cantiamo a squarciagola Vita spericolata finché corriamo nella corsia di sorpasso, o ci avviciniamo avventatamente a un’orsa, spinti da un istinto senz’altro irrazionale, incauto, pericoloso, ma comunque umano.
Questi rischi non devono essere incentivati, nemmeno tollerati, probabilmente. Dovremmo continuare a spiegare perché avvicinarsi a un animale selvatico seguito dai suoi cuccioli è un atteggiamento assolutamente da evitare.
E tuttavia dovremmo anche comprendere che le ingiurie, le offese, le cattiverie lanciate contro le vittime di tale irrazionalità, sono ingiurie, offese, cattiverie lanciate contro i nostri figli, i nostri amici, contro noi stessi.
[Ora potete spegnere la musica.]
Perdonare gli altri, per guarire noi stessi
Torniamo allora a piazzale Loreto. Forse la grande intuizione di Don Giovanni Barbareschi fu quella di capire che non si poteva comprendere il fascismo dividendo tra buoni e cattivi. Certo: non v’è dubbio che il fascismo fosse stato un crimine e che alcune persone, a differenza di altre, si erano schierate dalla parte dei criminali. Ma era caricaturale il fatto di considerare i fascisti semplicemente come degli idioti da deridiere, come dei diversamente-umani, come una categoria di individui intrinsecamente più malvagi di tutti gli altri.
I fascisti, al contrario, erano semplicemente uomini, che avevano lasciato emergere prepotentemente una componente violenta, malvagia e subdola, la quale non dimora soltanto in una parte “dannata” dell’umanità, ma si cela silenziosamente dentro a ognuno di noi, pronta a esplodere se non impariamo a riconoscerla.
Don Giovanni non aveva intenzione di giustificare le gesta di quegli uomini, ma di perdonare, nel momento estremo della morte, la loro disgraziata umanità. Perché se non era possibile inginocchiarsi e perdonare quella componente disgraziata dell’umanità non sarebbe stato possibile salvare nemmeno nessuno tra i “buoni”.
Ogni qual volta l’irrazionalità fa capolino nelle nostre vite, nelle varie forme che il nostro presente ci ha insegnato (dalle imprudenze dell’individuo, fino alle più temibili esternazioni delle masse), Barbareschi ci offre un esempio da seguire — l’insegnamento che essere ragionevoli non significa solo essere razionali, ma anche com-prendere l’irrazionalità come parte di noi e, perdonando gli altri, guarire noi stessi.
A proposito della testimonianza di Barbareschi, vorrei concludere questa newsletter con un passo di Viktor Frankl:
Mi si potrebbe accusare di portare esempi che sono l’eccezione alla regola. “Sed omnia praeclara tam difficilia quam rara sunt” (ma ogni cosa grande è tanto difficile da realizzare quanto rara da trovare) dice l’ultima frase dell’Etica di Spinoza.
Ci si può certo chiedere se non dobbiamo parlare di “santi”. Non sarebbe abbastanza parlare di persone decenti? È vero che sono una minoranza […]. Eppure è proprio lì che vedo la sfida: riuscire ad entrare nella minoranza. Perché il mondo è malato. Ma lo sarà ancora di più se ognuno di noi non farà del suo meglio.
Quindi fate del vostro meglio e lasciate perdere le ingiurie sui social.
Ti ringrazio per avermi letto fin qui. Se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscirte e di condividerla con i tuoi contatti!
Quest’oggi vi consiglio un grande classico: Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, sorta di confessione di un uomo malato. Ma malato di cosa? L’uomo del sottosuolo è un uomo nella cui interiorità abita il germe della contraddizione, del risentimento, del paradosso. È un individuo lacerato, che rifugge dalla logica della razionalità e si rifugia nel caos della coscienza. Un antieroe che parla direttamente a noi, svelandoci le zone d’ombra dell’animo umano con una lucidità disturbante. Se non l’avete ancora letto, è il momento di farlo.
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Riflessione interessante e ricca di spunti, come sempre. Ne lancio solo un paio:
1. fortunatamente la bile riversata sui social non è rappresentativa della società tutta ma solo della (spero) minoranza che li usa in questo modo
2. hai ragione, ognuno di noi ha fatto gesti irrazionali e stupidi, ma è stato probabilmente solo più fortunato di Zin.
Grazie per la riflessione!