Ciao, io sono Eugenio Radin e questa è la newsletter in cui parlo di filosofia e argomentazione: un modo per pensare e salvarsi dal naufragio. Ora che il conclave è terminato e un nuovo vescovo siede sul soglio di Pietro, vorrei concedermi qualche riflessione sul pontificato di Francesco.
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Una breve premessa
Sono stato indeciso fino all’ultimo se scrivere o meno questa newsletter. Nonostante l’avessi promessa, infatti, mi sembrava che i rischi di essere malinteso fossero troppo alti. E continuo a pensarla così.
Ma ho la necessità di mettere per iscritto pensieri che da tempo mi affollano la testa, nel tentativo di organizzarli e di capirli meglio. Spero che chi legge possa intendere che la mia volontà non è quella d’intavolare una polemica feroce, né quella di dare, in pochi paragrafi, un giudizio complessivo su un papato (compito che sarebbe difficilissimo e che richiederebbe molte conoscenze e un serio approfondimento). Il mio obiettivo è semplicemente quello di esporre una personale riflessione, nel pieno rispetto delle opinioni e delle credenze di tutti.
Ci tengo a fare un’altra precisazione. Chi leggerà troverà che do per scontata una cosa che per molti è tutto fuorché scontata: la verità trascendente del cristianesimo. Nei paragrafi che seguono non discuterò se Dio esista, se Cristo sia davvero risorto, o se la Chiesa abbia ancora qualcosa da dire all’uomo moderno. Non perché queste domande non siano importanti, ma perché se si vuole comprendere e valutare l’azione di un Papa la risposta positiva a queste domande dev’essere assunta in partenza, almeno come ipotesi di lavoro.
Un pontefice, infatti, va giudicato a partire dalla misura con cui incarna (o tradisce) il mistero che è chiamato a custodire. Ciò non significa dire che la fede cristiana è certamente vera. A chi non crede chiedo di provare a mettersi per un momento dentro lo sguardo della fede, per cogliere dall’interno il senso e la portata delle questioni che affronteremo. Detto ciò, possiamo cominciare!
Tra la Terra e il Cielo
Nella Passione secondo Giovanni, posto di fronte a Pilato, Gesù afferma che il suo Regno «non è di questo mondo», aprendo così una breccia di verticalità tra la Terra in cui l’uomo vive, soffre, spera, e il fondamento trascendente di quel vivere, di quel soffrire, di quello sperare.
È un luogo evangelico, come tanti altri simili, che ci pone di fronte a una caratteristica fondamentale del cristianesimo. Rispetto ad altre religioni e ad altre forme di spiritualità, esso infatti porta con sé la difficoltà di tenere insieme Terra e cielo; immanenza e trascendenza. Se l’ebraismo, così come l’Islam, fonda il proprio credere sulla parola dei profeti (uomini scelti da Dio, ma pur sempre creature), la figura di Gesù porta invece in sé una duplice natura. Gesù è un uomo a tutti gli effetti, ma è anche, a tutti gli effetti, Dio: «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».
Se sono molte le religioni che cercano di mettere in collegamento il piano umano e il piano divino, il cristianesimo è la sola in cui il divino è anche umano, in cui la stessa ontologia si fonda sul principio secondo cui «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Questo pone da sempre i cristiani nella necessità di rivolgere la propria attenzione sia al mondo, sia alla dimensione trascendente e spirituale. Con un duplice rischio: da un lato, quello di dimenticare che senza carità esercitata sulla Terra il cristianesimo perde la propria identità; dall’altro quello di scordare che la carità, così come gli altri valori cristiani, acquisisce senso solo se riferita a una trascendenza, a un Regno che «non è di questo mondo».
Come è umano lei!
Fin da quando, la sera del 13 marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio è apparso dalla loggia centrale di San Pietro per salutare la folla esultante, è apparso chiaro a tutti che il suo papato non aveva alcuna intenzione di correre il primo rischio. Dalla scelta di prendere il nome di “Francesco”, mai adottato fino ad allora da nessun pontefice; dal suo vestiario privo di paramenti purpurei; dal “buonasera” fraterno rivolto ai fedeli emergeva la volontà, espressa nel linguaggio simbolico della Chiesa, di condurre un pontificato rivolto verso gli ultimi e di marcare un netto distacco dal suo predecessore: un fine teologo, dimostratosi tuttavia incapace di raggiungere il cuore della gente.
Il motivo per cui Francesco è stato un papa così amato sta, credo, proprio nella sua volontà di affermare la dimensione più umana della Chiesa - nel suo rivolgersi prima di tutto all’uomo, nella sua finitezza, nella sua precarietà. Ed è per questo che egli è riuscito ad avvicinare a sé (ma non alla Chiesa) anche un vasto pubblico di non fedeli, poco interessati ai misteri teologici della fede cristiana, ma vicini agli ideali di solidarietà, fraternità, uguaglianza da lui espressi.
Tali temi emergono nelle sue omelie, nelle sue encicliche e nelle sue scelte di vita e raggiungono talvolta posizioni molto nette e molto forti (come quando, nel 2020, il Papa affermò «che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata». Posizioni che hanno attirato la simpatia delle sinistre antiglobaliste e anticapitaliste.
C’è chi, anche da sinistra, ha parlato in tal senso di populismo mistico1, cercando di mostrare come il suo pontificato si giocasse, più che sulla dimensione spirituale, su una dimensione politica, volta ad elevare a categoria mitica il concetto stesso di “popolo”, sulla scia di certi movimenti populisti latino-americani (ma oggi anche occidentali) la cui ascesa «trascende i procedimenti logici della democrazia formale»2. Ciò equivale a dire che la volontà del popolo, o per meglio dire la volontà di una parte specifica del popolo: gli esclusi, i vinti, i “reietti”, ha una potenza morale così forte, da poter scavalcare le dinamiche democratiche costituite.
È un’affermazione azzardata, che rischia di dare legittimazione religiosa a una vera e propria lotta di classe sprezzante delle istituzioni, in un periodo storico in cui le istituzioni democratiche vivono già di per sé un periodo di forte crisi. Non è un caso che il filosofo Gianni Vattimo sostenesse la causa di una nuova Internazionale «comunista e papista», con Francesco come suo leader indiscusso, per combattere e vincere la «guerra di classe contro il dominio del capitale»3.
È proprio questa vicinanza ai populismi antiliberali, questa similitudine con movimenti politici che, nella storia, hanno sempre usato la demagogia come strumento per conservare il proprio potere (un potere accentrato, assoluto e conservatore, esattamente com’è quello del Vaticano) il primo motivo di sospetto verso il pontificato di Francesco. E tuttavia, si potrebbe obiettare, questo è un giudizio puramente politico - a ragionare così, la propria opinione sul pontefice sarebbe subordinata alle proprie idee politiche ed è chiaro che persone con idee opposte potrebbero avere di Francesco un’opinione opposta. Ma la mia critica tocca anche un secondo piano, più profondo.
Etica o Teologia?
Il punto è che il ruolo del Papa non può essere soltanto quello di difendere un’etica, ma dovrebbe essere anche quello di testimoniare una teologia.
Con una mossa che ha il sapore di una rivoluzione copernicana, Francesco ha invece spostato il fulcro del proprio messaggio dalla teologia alla morale. Non è più la trascendenza il cuore pulsante dell’annuncio, ma la giustizia sociale, la cura del creato, l’accoglienza dello straniero. Tutti valori importantissimi, certo, ma che possono sussistere benissimo (e di fatto sussistono) anche senza bisogno di una fede religiosa.
Certo, non è che il Vangelo sia scomparso dalla predicazione di Francesco, ci mancherebbe, ma basta leggere testi come l’esortazione Evangelii Gaudium (2013), o l’enciclica Fratelli Tutti (2020), per accorgersi che le categorie dominanti nel lessico dell’ex Papa non sono quelle di “eternità”, “grazia”, “redenzione”, “spiritualità”, ma quelle di “solidarietà”, di “dialogo”, di “incontro”, di “dignità”. Il Vangelo viene riscritto in chiave etico-politica, non tanto come buona novella di salvezza, ma come manifesto di umanità.
Ancora una volta: qual è il problema in tutto ciò?
Da una prospettiva laica, nessuno. Ma se vogliamo assumere uno sguardo religioso, allora si spalanca di fronte a noi una difficoltà filosofica: se si mette da parte il fondamento trascendente dei valori cristiani, cosa resta infatti a giustificarli?
Così come risulterebbe difficile sostenere (nel senso più autentico di questa parola) le battaglie per i diritti civili senza prima aver compiuto una profonda riflessione sul concetto di persona e sul suo valore; così come è impossibile sostenere l’ecologismo senza prima meditare a lungo sul significato di “natura” e di “ambiente”; allo stesso modo è arduo testimoniare una fede concentrandosi sulla necessità politica dei suoi valori, ma tralasciando il fondamento metafisico di quei valori. La religione, senza Dio, si trasforma in etica. E l’etica, per quanto importante, non ha bisogno di papi.
Il Regno e i suoi valori
Al cristianesimo, dicevamo all’inizio, spetta l’arduo compito di tenere insieme l’umano e il divino. Non dobbiamo perdere di vista l’umano, ma se vogliamo dirci cristiani, dobbiamo ricordare che quell’umano non è semplicemente frutto di un contratto sociale, ma emanazione di un principio trascendente, di un Uno sovra-umano, che diventa origine e fine del nostro esistere. È la fede in quella trascendenza a dare senso alla cristianità, a fornire l’appiglio per rispondere al bisogno esistenziale più profondo dell’essere umano, alla domanda fondamentale sul suo essere, che va al di là dei problemi (seppur gravi) di una certa epoca storica, di una certa società.
È il focus in quella trascendenza a far sì che il cristianesimo sia un qualcosa in più di una semplice moralità fondata su valori culturalmente determinati e temporanei.
Il rischio, altrimenti, è quello di scambiare il Regno per i valori del regno; di trasformare il proprio credere in una pura prassi, bastante a se stessa, dimenticando così la radice ontologica che costituisce il vero cuore della fede. E non c’è nulla di male in ciò, lo ribadisco, se si vuole avere un punto di vista laico e secolarizzato. Ma per un cristiano, se l’azione etica è il mezzo per la salvezza, la sua garanzia non può che risiedere in Dio, nella fede in una sostanza infinita, eterna e amorevole.
Se il papato di Francesco ha corso un rischio, credo che il rischio sia stato proprio questo.
Ti ringrazio in ogni caso per avermi letto fin qui. Se vuoi puoi farmi sapere che ne pensi rispondendo a questa mail: leggerò con piacere il tuo commento. Ricordati anche di iscriverti alla newsletter per non perderti le prossime uscirte e di condividerla con i tuoi contatti!
Rimanendo in tema di religione, ma da una prospettiva molto più feroce e violenta, vi consiglio il romanzo che ho letto negli scorsi giorni: Il cielo è dei violenti, di Flannery O’Connor. La O’Connor è considerata una dei massimi rappresentati di quel sottogenere della letteratura americana noto ai critici come gotico sudista. Nei suoi racconti descrive tutta la tragedia del fanatismo religioso che abita il profondo Sud degli Stati Uniti.
Qui racconta le vicende di Tarwater, ragazzino allevato da un prozio fanatico e convinto di essere un profeta. Quando il prozio muore, Tarwater si reca per la prima volta in città per vivere con lo zio Rayber, uomo di scienza, e con l’obiettivo di battezzarne e di “salvarne” il figlio: un bambino nato ritardato “per Grazia di Dio”.
Flannery O’Connor ci accompagna in una lotta con una fede tanto brutale quanto potente e liberatoria, in un vortice drammatico che ricorda i grandi romanzi di William Faulkner o di Cormac McCarthy.
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https://lespresso.it/c/opinioni/2016/12/11/papa-francesco-e-il-populismo-mistico/28337
https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/october/documents/papa-francesco_20141028_incontro-mondiale-movimenti-popolari.html
https://formiche.net/2016/11/papa-francesco-e-comunista/#content
In realtà non vedo contraddizioni. La fede cristiana non è solo un assunto fideistico, ma si fonda su basi ben concrete, definite da Cristo stesso. "Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato." La fede non può prescindere dalla relazione tra gli esseri umani, né tantomeno dalla carità. La carità, in senso teologico, significa amore. Pertanto la fede si fonda sull'amore, prima di tutto tra gli uomini, poi di conseguenza, verso Dio. Il problema è l'uomo, che, come al solito, rovina tutto per colpa del peccato. Il peccato, non inteso come trasgressione a precetti e comandamenti, ma come assenza di riconoscimento della carità divina e la sua sostituzione con disvalori terreni, come il potere, il denaro, la cupidigia. Ovviamente, come è ben evidente da secoli, anche la Chiesa, come istituzione, ma anche come insieme di individui, è formata da persone. E le persone, per loro natura, non sono esenti dal peccato.
La premessa la dice lunga... Non so, per quanto mi riguarda il suo pontificato non mi ha mai convinto, nè dalla scelta del nome - glorificazione dell'umiltà e della modestia ("i poveri sempre li avete con voi" lo dice Gesù nei vangeli) - nè dal paragone tra una strage e un pugno a chi gli avrebbe offeso la madre, nè la sua provenienza dalla teologia della liberazione pauperista che in America latina ha un significato politico ed economico di fallimenti su fallimenti, fame e miseria (seppur ricca di valori etici e morali), nè dalla critica alla proprietà privata che per base è sacra in due comandamenti ("Non rubare", "Non desiderare la roba d'altri"), nè dalla sua apertura ad un regime come quello cinese, nè dalla mancata critica ad un sistema che per calmierare l'inflazione (spauracchio di chi dei bei risparmi in banca li ha) sfrutta manodopera a basso costo e senza diritti... ma io sono un conservatore liberale repubblicano (come si evince dal manifesto che ho pubblicato sul mio Substack ;)
Comunque i miei complimenti per la tua newsletter. Questa su Papa Francesco coglie un punto molto importante. Evidentemente, per Francesco, il trascendente significava 'operare' ("ciascuno secondo le sue opere").