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Se anche ognuno di voi portasse un nuovo iscritto, sarebbe un regalo meraviglioso. Ma bando alle ciance e passiamo all’argomento della settimana.
La disobbedienza civile
Nella newsletter della scorsa settimana abbiamo parlato di Henry David Thoreau e della sua decisione controcorrente di andarsene ad abitare per due anni in mezzo ai boschi, lontano dal rumore del mondo.
L’esperienza raccontata in Walden, ovvero vita nei boschi è stata poi rielaborata da vari pensatori e artisti, che hanno contribuito ad aumentarne la fama. Tuttavia Walden non è il contributo più importante che Thoreau consegnò alla propria epoca.
Il suo testo più significativo, invece, è un piccolo pamphlet politico molto breve e tagliente, che ispirerà, tra le altre cose, l’azione politica di Martin Luther King e di Gandhi.
Il libro, uscito nel 1849, è intitolato appunto: Disobbedienza Civile. In esso Thoreau invita i propri concittadini a esprimere la propria avversione nei confronti di politiche governative che egli considerava immorali (come la schiavitù o la guerra d’espansione contro il Messico), tramite una disobbedienza non-violenta che potesse in qualche modo scardinare le basi di quell’ingiustizia.
È un testo conciso la Disobbedienza Civile, ma non è il caso di prenderlo alla leggera: in una democrazia, ho il sospetto che l’applicazione sconsiderata dei principi di Thoreau porterebbe condurre a una totale ingovernabilità che finirebbe per minare le basi stesse della democrazia. Ma questo è un discorso complesso e non è di questo che voglio parlarvi.
Per il momento possiamo appurare che alcuni princìpi di disobbedienza civile restano validi tutt’oggi:
di fronte a forme di potere immorali, che non è possibile contrastare con un’azione democratica, il minimo che siamo chiamati a fare è proprio non partecipare, dissociarci in forma non-violenta.
Una critica ricevuta su Instagram
Facciamo un passo indietro. Qualche settimana fa, sulla mia pagina Instagram ho ricevuto la richiesta da parte di un utente di parlare di una questione delicata. Vi lascio la discussione, così che possiate leggere i commenti e le mie risposte.
Come vedete, la richiesta era che io parlassi di depenalizzazione delle droghe: argomento su cui avrei anche un’opinione piuttosto solida, alla quale però ho evitato di dar voce perché, conoscendo l’algoritmo di Instagram, ero quasi certo che un qualsiasi mio post sull’argomento sarebbe stato oscurato.
Come scrivo al mio interlocutore, infatti, Instagram non è in grado di distinguere tra un discorso filosofico sulla droga e un incitamento all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Per lui la sola parola “droga” è una red flag che fa scattare lo shadowban (cioè il meccanismo per cui i contenuti sospetti vengono messi nell’ombra e mostrati solo a una percentuale risibile di pubblico).
Questo non vale solo per l’argomento in questione, ma anche per tanti altri temi sensibili dai quali Meta cerca (invano) di proteggere paternalisticamente il suo pubblico. Personalmente sono infastidito da questo meccanismo perché, come viene ben sottolineato nel commento finale del mio follower, alla lunga conduce i creatori di contenuti all’autocensura e all’ovvietà. Non che un controllo non sia necessario, ma in alcuni casi questo controllo rischia di diventare peggiorativo e/o iniquo.
Ma cosa c’entra tutto ciò con Thoreau? Beh, dopo questo episodio mi sono interrogato a lungo su ciò che, da semplice creator di questa piattaforma, avrei potuto fare, e il testo di Thoreau mi è tornato alla mente. Il mio utente, in effetti, mi invitava a una forma di disobbedienza civile - alla ribellione nei confronti delle regole dell’algoritmo e devo ammettere che, teoricamente, questa forma di disobbedienza verso la dis-intelligenza artificiale mi sembrava qualcosa di moralmente appetibile. Ma riflettendoci ho avuto l’impressione che, in un’era dominata dagli algoritmi, la faccenda si complicasse un poco.
Nei seguenti paragrafi vorrei provare a spiegarvi perché, a parer mio, l’utilità di azioni di disobbedienza nei confronti di sistemi governati da algoritmi sia prossima allo zero.
Un approccio utilitarista
Chiediamoci anzitutto: a cosa serve la disobbedienza civile? Perché Thoreau accettò di essere incarcerato pur di non pagare le tasse di guerra? Perché migliaia di contadini indiani misero a rischio la propria incolumità per seguire le proteste gandhiane? Forse la mia visione è eccessivamente pragmatica, ma credo che il sentirsi in pace con la propria coscienza non costituisca una motivazione sufficiente. No, se si disubbidisce è perché si ritiene che tale disobbedienza possa portare a dei risultati.
Certo, nei casi più eclatanti; nell’animo dei soldati tedeschi che si rifiutarono di perpetuare l’olocausto; nell’azione di Oskar Schindler la spinta della coscienza ha senz’altro avuto un ruolo di primo piano rispetto all’illusione di poter fermare il male. Ma nella maggioranza dei casi, nei tanti scioperi o nelle altre espressioni di dissenso che puntellano la nostra quotidianità, al di sotto della disobbedienza si nasconde un approccio utilitarista.
Non stiamo parlando qui di un utilitarismo economico, ma di un utilitarismo filosofico ed etico, ovvero di un approccio che valuta ogni azione sulla base delle conseguenze a cui essa porta e, più in particolare, sul miglioramento delle condizioni individuali e collettive a cui conduce.
Insomma, se il personale di Trenitalia sciopera non è perché non può vivere sopportando il peso morale dato dell’aderire a politiche criminali, ma perché si augura che la sua azione possa risvegliare le coscienze e portare a dei benefici [ndr. qualcuno starà già pensando che in realtà lo fa per farsi il weekend lungo, ma non siate così cinici, dai… non tre righe sotto a un’immagine di Gandhi!].
Allo stesso modo, se dovessi accogliere la richiesta del mio utente, non lo farei perché non dormo al pensiero che su Instagram non posso parlare di droghe, ma per cercare di ottenere un qualche risultato. Prima di leggere quanto segue, è importante ribadire questo concetto: non c’è alcun valido motivo, a livello di coscienza personale, per il quale dovrei impormi di parlare di questi temi su Instagram, a meno che la mia opinione non possa arrivare a colpire la sensibilità di qualcun altro. Ed eccoci al punto: siamo certi che la disobbedienza civile online possa condurre a qualche risultato, utilitaristicamente parlando?
Gli algoritmi non hanno coscienza civile
Ammettiamo che io abbia deciso, sprezzante delle regole dell’algoritmo, di esprimere la mia opinione riguardo alla liberalizzazione delle droghe. Cosa sarebbe successo? Nulla, temo. I meccanismi di Instagram avrebbero messo in shadowban il video, che sarebbe stato visto da una percentuale irrisoria di persone e che dunque non avrebbe risvegliato alcuna coscienza.
A discapito di quanto può accadere nel mondo offline, a discapito di Thoreau e di tutti gli altri esempi di disobbedienza civile, qui ci troviamo di fronte a due differenze fondamentali:
La prima è che gli algoritmi non hanno alcuna coscienza civile. A differenza del governo americano dell’Ottocento, dell’Impero coloniale inglese, del sistema di segregazione razziale o delle ferrovie dello Stato, qui non si sta parlando di un sistema regolato da individui con una propria moralità, con un proprio sentire e con la possibilità di agire introspettivamente sulle proprie azioni. Qui si tratta di un sistema informatico che agisce sulla base di processi numerici, senza esercitare alcuna scelta, senza essere mosso da alcun tipo di pensiero cosciente, privo della capacità di discernere tra bene e male.
Questo significa che non è possibile esercitare un’azione né nei confronti del proprio pubblico (a cui il contenuto non viene nemmeno mostrato), né nei confronti degli “aguzzini” stessi, dal momento che non v’è nessun agente umano a gestire la selezione dei contenuti. Quel contenuto rimarrà lettera morta, una stringa di codice destinata a restare indecifrabile.
Il paradosso della visibilità
La seconda differenza fondamentale rispetto al mondo di Thoreau risiede nel fatto che al giorno d’oggi la visibilità di moltissime azioni (comprese molte azioni di disobbedienza) dipende in maniera fondamentale dalla visibilità web.
Mi spiego meglio: qualcuno potrebbe pensare che la miglior forma di ribellione consista proprio nell’abbandonare Instagram, nel cancellare il proprio account e nel chiamarsi fuori dai giochi. In tal modo si dimostrerebbe la propria avversione nei confronti dell’algoritmo allo stesso modo in cui le dimissioni di un politico dimostrano l’avversità nei confronti della linea del suo partito.
Ma da una prospettiva utilitarista (escludendo anche qui tutti i casi in cui questo passo indietro ha a che fare con esigenze di coscienza personale) il mondo social è molto diverso dal mondo offline. Se nel mondo offline la scelta di abbandonare una posizione di potere può attirare l'attenzione, generare dibattito e persino innescare cambiamenti politici o sociali, nel mondo online il silenzio è invisibile.
Questa logica crea un paradosso: è molto difficile esprimere efficacemente il proprio dissenso nei confronti dei social media se non rimanendo all’interno degli stessi social media.
Questo è verissimo per chi, come me, ha costruito la propria immagine pubblica su queste piattaforme, ma non soltanto. La maggior parte delle proteste, delle azioni collettive, oggi passano attraverso i social.
Così, la lotta contro le regole dell’algoritmo diventa una battaglia su due fronti: da un lato, l'esigenza di trovare modi creativi per emergere nel rumore digitale; dall'altro, la consapevolezza di non poter mai davvero sfuggire alle regole di un sistema che controlla la distribuzione e la visibilità delle informazioni.
Non si può più dire niente?
Non vorrei chiudere lasciandovi nel mare del pessimismo: nonostante tutto ciò che abbiamo appena detto è bene ricordare che non viviamo in una dittatura in cui non si può più dire nulla e in cui è impossibile esprimere il proprio dissenso. Al contrario, viviamo in uno degli angoli del mondo con più libertà e possibilità espressive. Anche se qualcuno vorrebbe far credere che non è così, piegando i dati al proprio storytelling, i dati continuano a parlare chiaro:
Come sempre, non si tratta di farsi prendere dal panico, ma di comprendere la situazione, di discuterne civilmente lì dove possibile e di intraprendere quelle azioni che possono effettivamente portare a un cambiamento. In conclusione, allora, vi lascio con tre suggerimenti utili:
Dovremmo prendere coscienza di cosa sono i social e soprattutto di cosa non sono, tenendo ben conto che essi rappresentano soltanto una piccola faccia della realtà. Dovremmo studiare le loro dinamiche, capire come funzionano per poterli poi usare al meglio in funzione di ciò che ci consentono di fare, accettando allo stesso tempo che, per soddisfare certi nostri desideri, sarà necessario spostarsi altrove.
Dovremmo esprimere il nostro dissenso tenendo sempre conto (anche) di una prospettiva utilitarista - ossia, provando a capire quali sono i luoghi e le modalità che possono massimizzarne l’efficacia.
Dovremmo sforzarci nel non ridurre la nostra azione politica e culturale a qualche story su Instagram o a qualche TikTok e ricercare spazi di dibattito e di confronto offline, senza rinchiuderci in un utilizzo smodato e inconsapevole degli strumenti digitali, che possono continuare ad essere un utile alleato, ma che non devono diventare il nostro comandante in capo.
Per quanto riguarda il ricercare nuovi spazi di dibattito con me, potete farlo partecipando alle varie conferenze che mi capita di tenere in giro per l’Italia, o rispondendo a queste newsletter! Tra l’altro, vi sarei grato se decideste di diffonderla, condividendo questo o altri articoli con i vostri amici e conoscenti: è un piccolo gesto, ma che per me conta molto.
Alla fine di questa riflessione, torno alla sua origine e vi consiglio di recuperare il testo di Thoreau di cui abbiamo parlato. Se letto cum grano salis può portare ricchissimi spunti di riflessione che riguardano anche la nostra attualità. Chiaramente, tenere conto del contesto e del momento storico in cui è stato scritto può essere molto utile per non prendere fischi per fiaschi e per non distorcere le opinioni del suo autore.
Se volete, potete acquistarlo anche dalla mia pagina di affiliazione Amazon: in questo modo per voi il prezzo rimarrà lo stesso, ma una piccola percentuale verrà riconosciuta a sostegno del mio progetto di divulgazione.
Grazie e buona lettura!
Semplicemente non si può disobbedire ai tempi dell'algoritmo. Lo spieghi bene: è un concetto di visibilità. Come raggiungo le masse se non uso i mezzi di massa? L'unica disobbedienza può essere singola, al massimo di un gruppo di persone che riesci a contagiare. Anche in passato era così. Se la stampa non avesse pubblicato i dibattiti dell'Assemblea Nazionale Costituente il popolo francese non avrebbe saputo della destituzione di Necker e (forse) non sarebbero nati i primi tafferugli per arrivare alla presa della Bastiglia (ho semplificato molto gli avvenimenti, chiedo venia). Questo non esclude la creazione di nuovi social (guardare Trump con il suo o Musk che ne ha comprato uno) ma sempre all'algoritmo si ritorna. Se consideriamo poi la spinta utilitarista che c'è dietro a delle cause che magari son lontane dalle nostre vite quotidiane ecco che diventa molto difficile ingaggiare le persone sui social, figuriamoci su mezzi più lenti come il classico giornale. Inoltre il bombardamento d'informazioni giornaliere rende più difficile distinguere notizie vere da quelle false. Per uscire dall'algoritmo dovrebbe accadere un fatto epocale che crei quella spinta utilitarista e una presa di coscienza collettiva, ma prima ancora mi chiedo se l'algoritmo sia un qualcosa di negativo a prescindere o se semplicemente ci sono impieghi positivi e negativi. Come se ne esce? Non lo so. Momenti di approfondimento come il tuo blog sono una risposta ma anche qui arriviamo alla domanda: chi ti trova? Chi ti vuole cercare...e gli altri? Boh
Bravo Eugenio, ottima argomentazione, chiara e ben scritta, che condivido in pieno. Inoltre trovo che il lavoro che fai online possa essere una delle possibili risposte: dai alle persone spunti e strumenti meta per stare nelle piattaforme in modo consapevole, comprendendone le logiche, permettendo loro di usarle senza esserne sopraffatti. Anche questa è una forma di disobbedienza civile, alla fine dei conti, in un sistema, quello algoritmico, che tende per sua stessa natura a uniformare e appiattire. Come scrive Luciano Floridi nella prefazione a "Etica dell'intelligenza artificiale" la filosofia come design concettuale offre progetti mirati, tra cui il "prendersi cura del capitale semantico dell'umanità ". Quindi grazie per il lavoro che fai.